Uffici Google a Londra (foto LaPresse)

La fame di Google

Eugenio Cau

Dati di tutti i tipi, da divorare in ogni modo. Gli ultimi (preziosissimi) sono quelli sanitari, in America

Milano. Google ha fame di dati. È una fame atavica, insaziabile, che vuole inghiottire tutto. Si dice che i dati sono il nuovo petrolio, ma per Google sono come i popcorn: quando hai cominciato a mangiarne non riesci a smettere. Google incamera dati a ogni momento. Il motore di ricerca è ancora uno dei più grandi generatori di dati al mondo, ogni domanda posta a Google significa dati preziosi sulle preferenze degli utenti, sulle loro paure (li cercate i sintomi delle malattie su internet, sì?), sui loro desideri, sui loro progetti. Il motore di ricerca è anche l’unico prodotto Google di cui possiamo dire con certezza: l’accumulo dei dati non è stato l’obiettivo primario della sua realizzazione. Sappiamo che Larry Page e Sergey Brin, i due mitologici fondatori da poco ritiratisi dalle operazioni quotidiane dell’azienda, si inventarono l’algoritmo di Google nel corso delle loro ricerche di dottorandi a Stanford, e che il loro obiettivo, al tempo, era di organizzare la conoscenza su internet. I dati arrivarono dopo, quando si trattò di trovare un modo per far soldi con quella gran invenzione. Per tutti gli altri prodotti, però, non possiamo essere così certi. Gmail esiste per fornire un servizio di email stabile e affidabile o per raccogliere i dati degli utenti? Google Foto esiste per dare alle persone un posto in cui salvare in maniera sicura le loro foto o serve a raccogliere dati per addestrare i sistemi di machine learning di Mountain View (avete presente quando Google Foto riconosce che nell’ultimo selfie ci sono anche il vostro amico Sandro con il suo cane Bobby? ecco).

 

L’ultima impresa in cui nessuno è sicuro se Google voglia salvare il mondo o accumulare più dati riguarda la salute. Google Health è un progetto vecchissimo, è nato nel 2008 ma è rimasto dormiente per anni, finché Google non ha messo a capo dell’impresa il dottor David Feinburg, un ex psichiatra infantile e manager di grandi strutture ospedaliere americane, con uno spirito molto siliconvalleyano: quando è stato intervistato dal Wall Street Journal, si è vantato che la sua tenuta da lavoro è un maglione di pile comprato per cinque dollari da WalMart, l’utilità è sempre sopra l’apparenza. Più o meno in coincidenza con l’arrivo del dottor Feinburg, Google Health ha cominciato a proporre accordi di collaborazione vantaggiosi alle aziende ospedaliere degli Stati Uniti, che funzionano più o meno così: noi vi diamo grossi incentivi finanziari e soprattutto vi diamo accesso alla nostra avanzatissima rete cloud e al meglio della tecnologia disponibile, ché lo sappiamo che i sistemi informatici degli ospedali sono obsoleti e funzionano male; voi in cambio consentite che Google abbia accesso ai dati dei pazienti. Secondo il Wall Street Journal, che sul tema ha pubblicato molte inchieste – l’ultima un paio di giorni fa – Google ha stretto accordi con una manciata di aziende sanitarie americane e ha ottenuto i dati di “decine di milioni” di pazienti. Molti di questi dati sono identificabili, cioè contengono nome e cognome del paziente, assieme all’elenco delle sue patologie e ad altre informazioni sensibili. Ad alcuni di questi dati, ha scritto il Wall Street Journal, Google ha avuto accesso senza che i pazienti o i medici lo sapessero. Occhio, è tutto assolutamente legale. Una legge firmata da Bill Clinton nel 1996 consente agli ospedali americani di fare praticamente quello che vogliono con i dati sanitari, ma è comprensibile che dopo le rivelazioni i pazienti fossero un po’ irritati, ed è stata aperta un’inchiesta federale sul cosiddetto progetto Nightingale, svelato dal Wsj a novembre.

 

Ma la fame di Google per i dati sanitari arriva da lontano. Nel Regno Unito, diverse aziende ospedaliere del servizio sanitario nazionale hanno stretto accordi con Google per la condivisione dei dati dei pazienti. Queste aziende ospedaliere inizialmente avevano accordi con una filiale di Google che si chiamava DeepMind Health, ma alla fine del 2018 Google ha inglobato tutto sotto Google Health, per centralizzare meglio. Nel 2016 DeepMind Health ammise di aver incamerato illecitamente i dati sanitari di 1,6 milioni di pazienti britannici.

 

Ora, a sentir Google e il dottor Feinburg, questi dati non servono a monetizzare, ma hanno come obiettivo un bene più grande: molti studi hanno mostrato come ormai gli algoritmi siano piuttosto bravi a fare specifiche diagnosi (per esempio quando c’è da riconoscere le immagini di certe malattie in una radiografia), e Google è il re degli algoritmi. Arriverà probabilmente il giorno in cui Google annuncerà di aver scovato in un paziente un tumore che i medici non avevano notato, e tutti giustamente esulteremo. Nel frattempo, i dati personali di milioni di persone rimarranno a disposizione di ingegneri californiani in ciabatte. Lo sono già dati di qualunque altro tipo, perché non anche quelli sanitari? Se la cosa vi piace o meno è una questione di priorità – ma non è detto che Google vi consentirà di scegliere.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.