Il Foglio Innovazione

La sproporzione tecnologica della piccola Armenia

Eugenio Cau

Seppellito nel Caucaso, senza sbocchi sul mare, c’è un paese sfortunato che ha fatto della tecnologia uno dei settori che trainano tutta l’economia. Due passi a Yerevan, tra startup siliconvalleyane, eredità sovietica e imprenditori californiani

Se sapete indicare con un dito sulla mappa dove si trova l’Armenia, e farlo al primo colpo, allora complimenti: fate parte di un club ristretto. L’Armenia è un luogo storico e sfortunato. E’ una delle culle del cristianesimo, e una parte sorprendentemente grande della nostra cultura proviene da quel lembo di terra schiacciato tra la Turchia, la Georgia, l’Azerbaigian e l’Iran (adesso sapete indicarlo). L’Armenia è un paese geograficamente svantaggiato: non ha sbocchi sul mare e gran parte dei suoi confini esterni è chiusa: quello con la Turchia, che ancora non ha riconosciuto il genocidio compiuto dagli ottomani all’inizio del Novecento, e quello con l’Azerbaigian. L’isolamento è anche culturale: gli armeni sono cristiani in un’area in gran parte musulmana, e si sentono europei anche se l’Europa cerca di volgere il meno possibile lo sguardo verso quella parte di mondo. L’Armenia è un paese piccolo, con meno di tre milioni di abitanti, e relativamente povero. Il pil pro capite è di 3.900 dollari a persona, contro i 10.500 della vicina Turchia (in Italia è 31.900 dollari). Ecco, direte, qui comincia il cliché. L’Armenia è un paese povero e sfortunato, che però cerca di rialzarsi grazie alla tecnologia e all’innovazione. Quante volte abbiamo già sentito questo racconto, praticamente per tutti i paesi in via di sviluppo che ci sono al mondo? Lo dovremo ripetere un’altra volta, perché per l’Armenia il cliché è reale. Lo dicono i numeri e lo dice la storia. Cominciamo dalla storia.

 

L’Armenia è stata il centro di sviluppo software dell’Urss. I vecchi ingegneri sono in pensione,
il know how è rimasto

Al tempo dell’Unione sovietica, l’Armenia era il centro di sviluppo software dell’Urss. La pianificazione sovietica assegnava un settore di sviluppo a ciascuna area dell’Unione, e all’Armenia erano toccati i software e i computer. La scelta era azzeccata: gli ingegneri armeni sono rinomati nel mondo. Al tempo del suo massimo splendore, l’industria informatica armena produceva il 40 per cento dei computer mainframe dell’Armata rossa, e aveva un ruolo importante nello sviluppo dei software militari e civili. L’Armata rossa non c’è più, le vecchie fabbriche sovietiche hanno chiuso, chi lavorava nel settore informatico cinquant’anni fa è ormai quanto meno in pensione, ma il know how è rimasto in Armenia

 

“Ho studiato all’Università di Yerevan e il mio professore di Ingegneria disegnava microcircuiti per i sistemi di lancio dei razzi dei sottomarini sovietici”, racconta al Foglio Innovazione Levon Babayan, capo della sezione business di IUnetworks, un’azienda con oltre 250 dipendenti che crea soluzioni per digitalizzare la pubblica amministrazione di diversi paesi – a partire dall’Armenia stessa, dove la raccolta delle tasse è quasi completamente digitalizzata. Un articolo del New York Times dell’aprile del 1994, quasi venticinque anni fa, descriveva l’Armenia come “la Silicon Valley sovietica”.

 

“C’è un po’ di esagerazione nel dire che l’Armenia era la Silicon Valley dell’Urss”, dice Armen Sarkissian, il presidente della Repubblica armena. “Ma è vero che l’Armenia era al tempo uno dei luoghi più avanzati dal punto di vista della scienza e della tecnologia. Questo dice molto del carattere degli armeni”. Sarkissian stesso è uno scienziato, un fisico e un informatico, che ha insegnato a Cambridge prima di cominciare una lunga carriera diplomatica e politica.

 

Il presidente della Repubblica è uno scienziato, un fisico e un esperto di informatica che ha insegnato a Cambridge

Adesso passiamo ai numeri, ottenuti in gran parte grazie ai ricercatori di Breavis, un’azienda di consulenze di Yerevan. I dati sono interessanti perché mostrano come la tecnologia occupi una parte sproporzionata dell’economia del paese. Il settore dell’IT (information technology) cresce di oltre il 20 per cento all’anno e le aziende informatiche producono più del 4 per cento del pil armeno. Questo è un dato in linea con gli Stati Uniti e con le economie più avanzate del mondo, e molto superiore a quello di paesi del livello economico dell’Armenia. Chiaramente bisogna guardare alle cose in prospettiva: le entrate dell’intero settore nel 2018 sono state di circa un miliardo di dollari, che corrispondono più o meno alle entrate che Google da solo genera in dieci giorni, ma se si considera che il pil dell’intera Armenia è di 11,5 miliardi di dollari (le entrate di Google nell’ultimo trimestre sono state di 40 miliardi) ecco che un miliardo derivante soltanto dalla tecnologia diventa, in proporzione, una cifra pazzesca.

 

C’è un altro elemento, meno scientifico, che testimonia la sproporzione tecnologica armena: come utenti di internet in Italia, è molto probabile che in qualche momento abbiate usato una app prodotta da un’azienda armena. E’ molto più difficile, invece, che abbiate usato una app di uno qualsiasi degli altri paesi dell’area, che magari sono potenze economiche regionali ma non hanno lo stesso grado di penetrazione tecnologica. Il candidato più probabile è Picsart, una app per modificare le fotografie che ha oltre 130 milioni di utenti attivi mensilmente e 600 dipendenti circa, di cui il 50 per cento donne (la percentuale si riduce negli impieghi tecnici, ma rimane alta).

 

E dunque com’è passeggiare per Yerevan, la capitale di questa presunta Silicon Valley caucasica? Nel centro città, la quantità imbarazzante di locali hipster che servono avocado toast e centrifugati, seppure per una frazione dei prezzi californiani, aiuta a creare una certa atmosfera – e a far pensare che tutta l’Armenia sia così, moderna ed europea, quando invece basta allontanarsi di poco che le cose cambiano. A entrare nelle startup e nelle compagnie tecnologiche della capitale si passa da paesaggi post sovietici, con aziende ospitate in palazzoni squadrati e grigi, impiegati tutti maschi e di mezz’età che sfumacchiano sui pianerottoli delle scale, sale riunioni illuminate al neon con grosse poltrone di pelle nera sdrucita – si passa da queste situazioni un po’ desolanti, dicevamo, al più sfacciato, e riuscito, scimmiottamento della Silicon Valley: open space con murales modaioli, impiegati giovani con la felpa con il cappuccio, sale relax con il caffè macinato sul momento, e ovviamente computer Mac dappertutto. Picsart, ancora, è un perfetto esempio di questo trend: la sua sede sembra un WeWork di San Francisco, quando ancora i WeWork erano fighi. Yerevan è piena di angoli avveniristici come il Tumo center, un centro di educazione alla creatività digitale per i ragazzi armeni, gratuito. Dai soffitti del Tumo center scendono grossi cavi collegati a computer Mac ultimo modello, che a loro volta sono installati su postazioni ergonomiche di legno. L’impressione è quella di computer calati dall’alto, come in un film di fantascienza.

 

Nella capitale si passa
dai loft colorati e modaioli ispirati a Palo Alto ai casermoni in stile
post sovietico

A Yerevan non ci si dimentica che ci troviamo nel Caucaso, i paesaggi europei si alternano a scene decisamente più asiatiche, ma è facile rimanere stupiti, questo sì, dalla sproporzione tecnologica armena. I giovani informatici, inoltre, sono stati una delle forze dietro alla rivoluzione di velluto dell’anno scorso. La storia è complessa e bella, ma ecco un riassunto: nella primavera del 2018 una serie di manifestazioni di piazza e di iniziative di disobbedienza civile ha costretto alle dimissioni un governo corrotto e in aria di autoritarismo. Qualche mese dopo il capo delle proteste, il giornalista Nikol Pashinyan, è stato eletto primo ministro dopo elezioni libere e democratiche. Come ha raccontato il New York Times in quei giorni, la forza propulsiva del movimento democratico erano i giovani ingegneri delle startup armene, che non avevano conosciuto il periodo sovietico e sapevano, quello sì, come organizzarsi e mobilitarsi online.

 

Il gran sviluppo digitale armeno nasce da un segreto che ancora non abbiamo rivelato. Gli armeni d’Armenia sono meno di tre milioni, ma gli armeni nel mondo sono oltre dieci milioni – e sono un elemento fondamentale della sproporzione tecnologica del paese. La diaspora armena è nata dopo il genocidio: quasi tutti gli armeni sparsi per il mondo sono figli delle vittime della ferocia genocidaria. Ulteriori fenomeni migratori hanno allargato la comunità degli armeni all’estero, spopolando il paese (a spopolare ci ha pensato anche il compagno Stalin con i suoi gulag). Esistono grandi comunità armene negli Stati Uniti, in Libano, in Russia, in Francia, e quasi tutte hanno una cosa in comune: gli armeni all’estero hanno molto successo. L’economia armena si sorregge grazie alle rimesse dei figli della diaspora che valgono, a seconda delle stime, tra il 15 e il 35 per cento del pil. Sono sempre loro che fanno investimenti ingenti per la tecnologia nel paese, e sono loro ad animare i fondi di venture capital che finanziano le startup. Il Tumo center è stato fondato da Sam e Sylvia Simonian, due armeni che le loro fortune le hanno fatte a Dallas, Texas. Molte aziende tech armene hanno un doppio quartier generale, uno in Silicon Valley e uno a Yerevan, e non sfugge a nessuno che l’Armenia fa gola perché gli ingegneri sono molto preparati ma costano una frazione di quelli americani.

 

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La diaspora armena, composta dai figli delle vittime del genocidio, è una delle forze trainanti della scena tecnologica

men Orujyan è un figlio della diaspora. Si è trasferito in California da adolescente, ha fatto fortuna nel mondo della formazione tecnologica e poi è tornato in Armenia a fondare Fast, un’associazione di promozione delle discipline informatiche e scientifiche. Al Foglio Innovazione racconta che fino a un paio d’anni fa lui, ormai californiano, non avrebbe mai pensato di tornare in Armenia: “Tutto a Yerevan mi sembrava piccolo”, dice. Ma aggiunge anche che nella piccola Armenia ha visto potenzialità che sopravanzano le condizioni sfortunate del paese.

 

“La definizione di Silicon Valley dell’èra sovietica è un credito che dobbiamo onorare”, dice Armen Sarkissian, il presidente della Repubblica. “Ma dobbiamo ancora lavorare duro e competere per meritarci lo stesso titolo nel Ventunesimo secolo”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.