Jaron Lanier (Doug Menuez / Stockland Martel)

La terza vita di Jaron Lanier. Parla l'inventore della realtà virtuale

Eugenio Cau

È un guru tech, è il più grande critico dei social media e ora ha qualche idea per aggiustare internet. Ora dice che bisogna ripensare la nostra vita online, rinunciando al tutto gratis e valorizzando l’unica merce che conta: i nostri dati

Jaron Lanier ha vissuto tre vite. Nella prima ha inventato la realtà virtuale, negli anni Ottanta. Non soltanto ha costruito il primo dispositivo per provare la realtà virtuale assieme ad altri scienziati pazzi come Thomas Zimmerman; ha letteralmente inventato la locuzione “realtà virtuale”, e poche persone al mondo possono vantare una tale qualità adamitica. Nella sua seconda vita, Lanier è diventato il più grande critico dei social network e di internet per come si sono sviluppati negli ultimi vent’anni – il suo libro “You Are Not a Gadget” uscì negli Stati Uniti nel 2010, quando noialtri ancora eravamo convinti che su Facebook si facessero amici veri. La terza vita di Lanier è appena cominciata: è quella in cui, dopo aver mostrato al mondo cosa non funziona di internet, si mettono a posto le cose.

    

Lanier è diventato un critico dei social e di internet quando ancora noialtri pensavamo che su Facebook si facessero amici veri

In realtà Lanier di vite ne ha vissute infinite, e la sua biografia è così ricca di aneddoti da fare impallidire una rockstar. Nato nel 1960 da una madre ebrea viennese che dopo l’Anschluss riuscì a fuggire da un campo di concentramento e da un padre ebreo ucraino scampato ai pogrom, Lanier ha trascorso la sua infanzia nel New Mexico, nella seconda contea più povera di tutti gli Stati Uniti. I genitori si erano conosciuti a New York, ma poco prima della nascita di Jaron avevano deciso di trasferirsi nel deserto. La madre, pianista professionista e trader finanziaria (allo stesso tempo, sì), morì in un incidente stradale quando Lanier aveva nove anni. Il padre, autore per riviste di fantascienza pulp, lasciò che a undici anni Lanier progettasse la casa di famiglia, una strana struttura tutta cupole e spirali, che è crollata di recente. A 14 anni Lanier è ammesso alla New Mexico State University, ma la abbandona. A 16 anni è ammesso al Bard College di New York, ma abbandona anche quello prima dell’inizio dell’anno accademico. Abita per qualche decennio tra New York, la Silicon Valley e il New Mexico e vive così intensamente da poter riempire molte esistenze. 

   

Lanier è un musicista e compositore professionista che ha accompagnato al piano John Cage e Laurie Anderson e ha collaborato con Philip Glass. E’ un accumulatore di strumenti musicali esotici e rari, a casa sua ce ne sono oltre 700, tra cui il flauto più grande del mondo. E’ stato un allevatore di capre. E’ stato una levatrice, nel senso che per un periodo in New Mexico ha lavorato come assistente durante il parto per donne messicane indigenti. Ha lavorato nel cinema, come consulente di Steven Spielberg nel film “Minority Report”. Nel frattempo ha inventato la realtà virtuale, è diventato ricco grazie alle sue invenzioni, ha perso tutti i suoi soldi e tutti i brevetti a causa della cattiva gestione burocratica, ha fatto scoperte rivoluzionarie ulteriori, ha trovato lavoro come consulente e ricercatore a Microsoft, ha scritto libri best seller, è stato nominato da Time nella lista dei 100 uomini più influenti del mondo. L’isola micronesiana di Palau gli ha dedicato un francobollo.

  

Il secondo ideale contraddittorio è che nell’ambiente tutti prendono a modello lo spirito imprenditoriale di Steve Jobs ed Elon Musk

Jaron Lanier ha vissuto molte esistenze, ma è noto per due in particolare. Quella come pioniere della tecnologia e quella come pioniere del pensiero critico nei confronti della tecnologia. Il passaggio dall’una all’altra è stato difficile. Lanier ha concepito le prime critiche attorno all’economia digitale negli anni Novanta, quando ancora la maggior parte delle persone non sapeva nemmeno bene cosa fosse l’economia digitale, ma si può dire che il momento in cui la sua nuova vita è cominciata per davvero è stato con la pubblicazione di “You Are Not a Gadget”, che l’autore considera come un manifesto. In un profilo pubblicato dal New Yorker nel 2011, dunque nel momento liminare tra una vita e l’altra, Jennifer Kahn ha definito Lanier come “una figura insolita: è un esperto di tecnologia a cui non piace ciò che la tecnologia è diventata”. Ricordiamoci un attimo com’era, il 2011. L’iPhone era uscito da pochi anni, Facebook era un fenomeno di massa relativamente nuovo, Steve Jobs era l’uomo più ammirato del mondo e a Google credevano ancora in “don’t be evil”, il famoso motto dell’azienda, poi dismesso. Tutto il mondo pendeva dalle labbra di un gruppo di imprenditori miliardari nella Silicon Valley, convinto di aver trovato chi li avrebbe guidati verso un futuro migliore. A quel punto arriva Jaron Lanier, che è un uomo grande come una collina, con i rasta biondicci i piedi quasi sempre scalzi e una voce dolce, e dice: la strada su cui vi state buttando è sbagliata. L’economia di internet è fondata su un inganno, e la vostra sudditanza giuliva ad algoritmi che mirano a influenzare il comportamento degli esseri umani costerà caro alla società.

  

Scorporare Big Tech non è una soluzione. Il vero problema è che tutto il sistema è ottimizzato per ingannare le persone

 

Oggi queste cose non suonano più strane. Ci sono stati gli scandali, c’è stato il “techlash”, e le aziende della Silicon Valley in pochissimi anni sono passate dalla cima al fondo della classifica della fiducia dei consumatori. Ma nel 2011 parlare come parlava Lanier non era facile. “Per molto tempo pochissime persone hanno capito questo tipo di problemi. Negli anni Novanta e nel primo decennio del secolo soprattutto non c’era quasi nessuno, e sostenere posizioni come le mie è stato doloroso. Ho perso amici, è stato molto difficile”, dice Lanier al Foglio. “Ma ora non sono più solo. Ci sono molte persone coinvolte nel criticare e comprendere quello che sta succedendo online, sta diventando un movimento di massa”. Dopo casi come Cambridge Analytica, dire che le storture dell’economia di internet sono un pericolo potenziale per la società e la democrazia è diventato quasi un luogo comune. E per Lanier, che questi pensieri li rumina da vent’anni, è strano sedersi sulla sedia del “ho-avuto-ragione”.

    

“E’ una situazione curiosa, perché ovviamente se fai delle osservazioni pessimistiche è meglio che ti stia sbagliando”, dice Lanier. “Non posso essere compiaciuto per il fatto di aver avuto ragione, sarei stato molto più contento se si fosse dimostrato che mi ero sbagliato. Ma sono speranzoso e felice che moltissime persone siano arrivate a pensarla come me. La cosa che mi ha fatto soprattutto piacere è stata l’apparizione di ingegneri illuminati all’interno dell’industria, anche loro stanno cominciando a mettere in discussione quello che succede. Parliamo di ingegneri in aziende come Google, che hanno deciso di risolvere il problema anche se hanno cominciato la loro carriera facendone parte”.

  

Lanier non vuole chiudere internet. E’ convinto che ci sia ancora speranza, e ha idee chiare per rimettere a posto le cose

Jaron Lanier è passato dall’Italia quest’estate per partecipare al Festival dei dei Due Mondi di Spoleto. Ospite della Fondazione Carla Fendi, presieduta da Maria Teresa Venturini Fendi, ha preso parte a un progetto artistico intitolato “Ecce robot”. E’ in quel contesto che il Foglio ha avuto modo di contattarlo.

  

Il pensiero di Lanier è più complesso della litania “Facebook e Google violano la nostra privacy” che va molto di moda negli ultimi anni. Lanier non è un luddista, non è anti tecnologico – è un rivoluzionario deluso. Per un momento meraviglioso, alla fine degli anni Ottanta, ha sperato che la tecnologia avrebbe potuto prendere una via utopica, l’ha ritenuto possibile, poi l’ha vista sbandare, prendere la strada dell’economia degli algoritmi e della modificazione comportamentale, fino a creare un sistema che non innalza gli esseri umani, ma li stritola. Un’altra pioniera di questo campo, la professoressa di Harvard Shoshana Zuboff, nel suo “The Age of Surveillance Capitalism”, confuta il detto famoso per cui “se non paghi per il prodotto, il prodotto sei tu”, dicendo: noi non siamo il prodotto, siamo la materia prima necessaria per generare dati, siamo carcasse spolpate e abbandonate. Ma se Zuboff vorrebbe tornare indietro e per molti versi recuperare la vecchia vita analogica, Lanier non vuole chiudere internet – vuole che esprima il suo vero potenziale.

  

Il primo ideale contraddittorio è la speranza che grazie a internet otterremo una specie di paradiso comunista in cui tutto è gratis

Nella sua visione, l’attuale economia di internet nasce dall’incontro perverso tra due modelli diametralmente contrapposti, che messi assieme hanno generato un mostro. Da un lato l’idea che tutto ciò che è digitale debba essere gratuito, dall’altro l’idolatria per i grandi imprenditori tech. “La cosa strana della computer culture è che è basata su due modelli estremamente contraddittori, anche se questa cultura non vuole riconoscere la contraddizione. Crede che grazie a internet otterremo una specie di paradiso comunista in cui tutto è gratis, le persone condividono gratuitamente e tutto è fatto grazie al lavoro di volontari, non ci sarà più bisogno né del capitalismo né dei governi e per la prima volta si riuscirà a creare un’anarchia che funziona per davvero. Questa è un ideale che le persone hanno accarezzato”, dice Lanier. “L’altro ideale è che nell’ambiente tutti amano gli imprenditori tech. Steve Jobs, o più di recente qualcuno come Elon Musk. La gente venera queste figure e si convince che abbiano qualità sovrumane”. E qui nasce il mostro: “Se vuoi mettere insieme questi due ideali ci sono pochi modelli di business che sono davvero efficaci, e in realtà uno soltanto, che è il modello basato sulla pubblicità, che è diventato dominante. E se qualche compagnia volesse provare una strada differente non le sarebbe nemmeno consentito, perché la computer culture ha una ortodossia fortissima su entrambi questi ideali contrastanti”.

  

“E dunque per creare l’illusione che le cose siano gratis online è stato necessario trovare un altro modello di business”, continua Lanier. “Questo modello è strano, perché normalmente il modo in cui si fa affari è piuttosto semplice: il venditore vende un prodotto al cliente. Ma in questo caso l’utente, cioè quello che utilizza il prodotto, non è anche il cliente. Il cliente è una terza parte che non è coinvolta nella transazione e che paga per poter manipolare l’utente. E’ davvero strano. Se mandi un’email usando un servizio gratuito, vuol dire che c’è qualcun altro che sostiene le spese per consentirti di poterlo fare. Ma la ragione per cui lo fa è che vuole manipolarti. E questa è una situazione davvero davvero strana”.

   

L’unico modello di business disponibile per la gran maggioranza della rete è la degradazione del carattere umano

La manipolazione è un punto centrale del pensiero di Lanier. Poiché lo scopo principale delle piattaforme di internet è quello di vendere pubblicità agli inserzionisti – pubblicità che deve essere targetizzata mediante i dati estratti dagli utenti – il loro imperativo è quello di fare in modo che le loro fonti di materie prime (le materie prime sono i dati, le fonti siamo noi) rimangano il più possibile sulla piattaforma, in modo da facilitare l’estrazione. In linguaggio tecnico, si parla di mantenere alto l’“engagement”, il coinvolgimento degli utenti. Per farlo utilizzano stratagemmi di manipolazione psicologici tratti dalle scienze comportamentali. Le notifiche che appaiono da tutte le parti e spingono a cliccare, i promemoria di compleanni e anniversari, il sistema dei “like” e dei cuoricini che costringe a controllare compulsivamente se il proprio apprezzamento sociale aumenta o no – questi sono tutti strumenti di manipolazione. Non sono strumenti buoni: “Il fatto è che affinché la manipolazione funzioni bisogna usare princìpi psicologici che provocano dei cambiamenti nelle persone, e i sentimenti più facili da manipolare sono la paura e la rabbia. Così le persone diventano più irritabili e instabili perché vengono sollecitate continuamente la loro paura e la loro rabbia. E il risultato è che l’unico modello di business disponibile per la gran maggioranza della rete è la degradazione del carattere umano. E’ una delle situazioni più STUPIDE della storia dell’umanità”, dice Lanier. Per descrivere la situazione, Lanier ripete tante volte termini come strange, stupid. Si sente che non riesce a capacitarsi di come le cose sono finite così, ed è questo che lo distingue dagli altri critici dell’economia di internet, che spesso sono arrivati dopo di lui. Per Lanier è tutto un grande malinteso, un malinteso che si può risolvere se tutti sono d’accordo a lavorare assieme.

  

Il primo punto nella lista delle cose da fare è cambiare il modello di business. Bisogna spazzare via l’idea del “tutto gratis”. Un paio di anni fa, durante un Ted Talk su questi temi, Lanier ha strappato l’applauso più grande quando ha detto: “Sometimes when you pay for stuff things get better”, che significa: a volte se si paga per la roba le cose vanno meglio. Parlando con il Foglio, Lanier cita Netflix come un buon esempio: “Quando le compagnie chiedono ai loro clienti di pagare per le cose anziché usare la pubblicità, queste compagnie hanno successo. Un esempio è Netflix. Se paragoni Netflix, o qualunque altro servizio di streaming video a pagamento, a YouTube, la differenza in qualità è impressionante. Penso che YouTube sia pieno di video interessanti, ma quella che la gente chiama ‘età dell’oro della televisione’ è nata grazie ai prodotti che sono su Netflix e su Hbo (la casa di produzione di ‘Game of Thrones’, ndr), sono questi i prodotti che importano davvero alle persone. Questa è una dimostrazione ovvia che un altro modello può funzionare”.

  

Eppure verrebbe da pensare, come dicono gli americani, che ormai “il genio è fuori dalla lampada”, e non lo puoi più rimettere dentro. E’ relativamente facile citare Netflix come un modello di successo di azienda che è riuscita a eliminare il sistema del “tutto gratis”, perché tutti vogliono vedere la nuova stagione di “Stranger Things”, ma come la mettiamo, per esempio, con le news? Internet ha messo sullo stesso piano di accessibilità e di visibilità gli articoli e i contenuti prodotti da testate che investono nel giornalismo di qualità e quelli prodotti da sitacci. Davanti all’occhio impassibile dell’algoritmo di Google, non c’è differenza tra il Wall Street Journal e i siti spazzatura (in realtà l’algoritmo ha sistemi per pesare la qualità, ne sono stati annunciati di nuovi di recente, ma spesso non funzionano), e questo ha generato una crisi enorme nell’industria dell’informazione. “Mi preoccupa moltissimo l’idea che internet, che avrebbe dovuto essere un’utopia per l’informazione, stia in realtà riducendo la qualità dell’informazione a cui le persone hanno accesso, e questa è una tragedia”, dice Lanier. “E’ difficile spiegare come mi sento, perché la mia generazione, i miei compagni, i miei amici hanno lavorato per molti anni per costruire un nuovo modo di fare informazione e adesso scoprono che il risultato del loro lavoro è l’opposto di quello che immaginavano. Questo ci spezza il cuore. Ma non credo che l’idea del genio che ormai è scappato dalla lampada sia giusta, penso che sia troppo fatalista. Dobbiamo capire che cosa spinge le persone a pagare per qualcosa. Questa discussione è appena cominciata”.

   

Torniamo alla questione del “tutto gratis”, e alle idee su come sostituire questo modello dannoso con uno virtuoso. Per Jaron Lanier, la cosiddetta intelligenza artificiale, che ora per molti è origine di preoccupazione, potrebbe diventare parte della soluzione. Tutto nasce dal fatto che, secondo Lanier, l’intelligenza artificiale non esiste, ed è composta essenzialmente dal lavoro di altri esseri umani. “Se hai modo di conversare con gli ingegneri che lavorano a Google e a Facebook non ti parleranno di social media, non ti parleranno di ricerca online, non ti parleranno di inserzionisti, non ti parleranno di nessuna di queste cose. Ti diranno che c’è una corsa all’intelligenza artificiale. I dirigenti di queste compagnie sono convinti con tutte le loro forze che l’intelligenza artificiale governerà il mondo e che il primo che riuscirà a creare una buona AI vincerà tutto. E’ winner takes all, e nient’altro importa”, dice Lanier. Questo genera enormi preoccupazioni nella popolazione, perché molti si convincono che presto i software di intelligenza artificiale diventeranno “capaci di fare attività che finora abbiamo pensato che soltanto gli umani potessero fare, come essere un avvocato, uno scrittore, un giornalista. Questo preconizza un futuro in cui gli esseri umani saranno obsoleti”.

    

Ma se guardiamo un attimo a cos’è davvero l’intelligenza artificiale, sostiene Lanier, si capisce che in realtà è tutto un “grande equivoco”. “Io non penso che ci sia davvero un’intelligenza artificiale”, dice. “L’intelligenza artificiale consiste nell’utilizzare il lavoro di certe persone per risolvere i problemi di altre persone. Per esempio, quando una intelligenza artificiale usa un algoritmo per consigliare musica su una piattaforma di streaming, in realtà non fa altro che raccogliere dati sui gusti musicali di altre persone e poi veicolarli a te. Dietro non c’è l’intelligenza artificiale, ci sono migliaia di persone che hanno inserito dati su che musica ascoltano. Dobbiamo smettere di fingere che l’intelligenza artificiale sia un essere supremo che renderà obsoleti gli esseri umani, quando invece tutto ciò di cui è fatta non sono altro che i dati di altre persone. Se cominciamo a vedere l’intelligenza artificiale in questa maniera, si può anche immaginare un futuro in cui le persone sono pagate per i loro dati, e in questo caso più intelligenza artificiale c’è, più robot ci sono e più saranno i posti di lavoro”. Insomma, se noi dovremo pagare per i servizi digitali, sarà vero anche il contrario, i dati di cui siamo portatori potrebbero diventare merce preziosa e l’economia di internet potrebbe trovare un nuovo modello circolare.

   

Un altro tema su cui molti autori critici con la Silicon Valley si sono esercitati in questi ultimi anni è quello dei monopoli. Intellettuali, studiosi e politici hanno cominciato ad accarezzare l’idea che le grandi aziende digitali vadano scorporate: Facebook separato da Instagram e da WhatsApp, e così via. Lanier ritiene che l’Antitrust “non risolve direttamente il problema, anche se potrebbe influenzarlo in maniera indiretta. Siamo davanti a una serie di tentativi di risolvere quella che ormai tutti ritengono sia una situazione orribile. Il GDPR (la normativa europea sul trattamento dei dati, ndr) è un esempio ulteriore. Ma queste proposte non sono focalizzate sul vero problema. Il problema è che le compagnie di internet hanno tutti gli incentivi per controllare e manipolare i loro utenti, e che tutto il sistema è ottimizzato per ingannare le persone. La vera urgenza è trovare modi per cambiare il modello di business”.

   

Le scienze informatiche dovrebbero diventare come la scrittura. Non tutti sono scrittori, ma tutti sanno scrivere

Chiediamo a Jaron Lanier se ritiene che internet abbia un ruolo nella crisi della democrazia liberale. Di recente il presidente russo, Vladimir Putin, l’ha definita obsoleta, e dagli Stati Uniti all’Ungheria all’Italia i leader che sostengono il mito dell’uomo forte e che sembrano insofferenti davanti alle regole democratiche godono di successi crescenti. Internet è parte del problema? “Sì!”, dice Lanier deciso, e poi scoppia a ridere. “Il modello di business di internet è fare in modo di rendere le persone dipendenti dai prodotti digitali e poi manipolarle. Ci sono algoritmi che permettono di misurare il cambiamento dei comportamenti, e fare in modo che le persone clicchino e condividano di più. Questo succede quando le persone sono arrabbiate o spaventate. Sono queste le emozioni necessarie per far funzionare il modello di business. E alla fine l’influenza sull’intera popolazione è grande, perché i cittadini sono più irritabili e più paranoici, e alla fine questo provoca cambiamenti politici in tutto il mondo”.

   

“So che a volte questo è un tema controverso”, continua Lanier. “Si può dire che ci sono moltissime cause per l’attuale situazione politica, e certamente ci sono. Le persone sono arrabbiate per le diseguaglianze economiche, per la crisi migratoria, per la questione demografica, per l’invecchiamento della popolazione, ci sono moltissime ragioni. Ma quello che vorrei chiederti è: cos’hanno in comune il Brasile e la Svezia? In entrambi i casi vediamo l’ascesa di figure populiste che non avrebbero avuto successo anche soltanto pochi anni fa, ma in termini di immigrazione, disuguaglianze nel reddito, demografia… in queste categorie non hanno niente in comune. E dunque perché questi fenomeni politici si stanno verificando in tutto il mondo nello stesso momento? L’unica cosa che questi paesi hanno in comune sono Facebook e Google, e penso che questa sia la risposta”.

   

Per casualità, poco dopo la conversazione con Jaron Lanier il New York Times ha pubblicato due lunghi approfondimenti sull’ascesa del populismo sia in Svezia (dove i partiti di estrema destra hanno consensi a doppia cifra, ma non sono al potere) sia in Brasile (dove invece il populista Jair Bolsonaro ha vinto le elezioni). Entrambe le inchieste mostrano il ruolo predominante di internet. In Brasile, alcuni esponenti dell’estrema destra arrivano a dire che senza la diffusione delle loro idee consentita dall’algoritmo di YouTube (che è un prodotto di Google) Bolsonaro non sarebbe riuscito a diventare presidente.

   

Gli algoritmi conquistano il mondo, e poiché soltanto pochi riescono a capirli sono diventati oggetto di venerazione

 

E dunque, forse, cambiare soltanto il modello di business non basta più. Un anno fa, durante il suo Ted Talk, Lanier ha detto al pubblico che bisogna “creare una nuova cultura attorno alla tecnologia”. In maniera sempre più decisa, il mondo in cui viviamo è plasmato da una classe di individui con due caratteristiche peculiari: venerano la tecnica e sono quasi interamente privi di preparazione umanistica. Sanno compilare codice alla velocità della luce ma non hanno mai letto un libro di storia. E questo è un problema, perché i due mondi, quello della tecnica e quello dell’umanesimo, si stanno separando. “Le scienze informatiche ormai funzionano un po’ come l’alchimia”, dice Lanier. “Abbiamo questi algoritmi che stanno conquistando il mondo e influenzano moltissimi aspetti della vita, dalle sentenze giudiziarie alla medicina agli appuntamenti romantici, e gli algoritmi non sono facili da capire, non capiamo davvero come funzionano o perché funzionano, facciamo fatica a capire esattamente cosa fanno e come fare in modo che si comportino in maniera diversa. Pochissime persone riescono a capirli, e vengono pagate moltissimo per farlo, e proprio perché la comprensione generale è scarsissima gli algoritmi diventano venerati, e c’è una classe sacerdotale che li gestisce. E’ davvero preoccupante, non è così che dovrebbe essere”.

  

“Sono molto interessato nella continuazione del progetto dell’Illuminismo”, dice Lanier. Bisogna trovare il modo di costruire un futuro che non si limiti a venerare la tecnica, partendo dalle basi. “Tutto ciò che riguarda le scienze informatiche, tutto ciò che riguarda internet dovrebbe diventare come la scrittura. Non tutti diventano scrittori professionisti, ma tutti sanno scrivere, e non è possibile immaginare una democrazia che funzioni senza un elettorato alfabetizzato. Penso non sia possibile immaginare una società hi-tech che funzioni senza che i cittadini abbiano un’alfabetizzazione tecnologica. Adesso alfabetizzazione tecnologica significa che la gente impara a usare il prodotto di qualche azienda, ma noi abbiamo bisogno di molto di più. Abbiamo bisogno di una società in cui le persone sono a contatto con il modo in cui le cose funzionano, in profondità. C’è ancora molta strada da fare”. La terza vita di Jaron Lanier è appena cominciata.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.