Elisabetta Trenta (foto LaPresse)

Trenta e la Difesa della casa

Maurizio Crippa

La grottesca vicenda dell’ex ministra che non sa più rinunciare ai privilegi della fureria

Come Gianni e Pinotto, come Diabolik e Eva Kant, come il telefono in duplex, prima di affondare al largo del Papeete il vecchio governo funzionava alla perfezione, bisogna riconoscerlo. La marxiana divisione del lavoro, se mai avessero lavorato: uno si occupava della difesa della Razza, l’altra della difesa della casa. Antropologie maldestramente italiane e complementari. Sull’antropologia “prima gli italiani” saltiamo un giro. Stavolta bisogna occuparsi dell’antropologia “prima i furieri”. Del grottesco affaire della ex ministra Trenta Metriquadri. Ché l’esercito sempre fu addestrato a raggiungere la Vittoria alata, ma, più terra terra, sempre fu retto dall’estro malandrino dei furieri che si occupavano del vitto e del casermaggio. La difesa della casa, appunto. L’alloggio ufficiali. La tragicomica vicenda è quella della ex ministra della Difesa designata dai Cinque stelle, Elisabetta Trenta da Velletri, già domiciliata al Pigneto, che si era fatta acquartierare (in qualità di ministro della guerra ai privilegi, forse) in un alloggio più centrale e più bello che pria, a spese dell’esercito. Dopo il siluramento dal governo (riconferma per lei? Addio mia bella addio) il nuovo e più spazioso appartamento non solo non l’ha restituito, ma ha escogitato un giro del fumo – che lei giura legale e persino nei canoni della grillesca trasparenza – per farla intestare al legittimo consorte: il maggiore dell’Esercito Claudio Passarelli, già ufficiale addetto alla segreteria del vicedirettore nazionale degli armamenti, che la moglie-ministro dovette, a malincuore, far trasferire “per questioni di opportunità”, all’epoca della nomina. Ma le era sembrata, già allora, un’ingiustizia. Il che fa doppiamente ridere, vista la provenienza dal partito che vorrebbe impedire a chi ha fatto politica di aprire persino una polisportiva, perché il conflitto di interessi (ma degli altri) è sempre in agguato. 

 

 

Ora pare che il militar consorte, stante il valore dei suoi gradi – che nonostante la ministra-moglie aderisca alla setta dell’uno vale uno nelle caserme contano ancora – non avrebbe diritto alla lussuosa magione. E siamo un’altra volta, di malavoglia, di fronte non a un caso politico, non all’etica per damigelle, ma allo squallore di un’antropologia italiana e arruffona. L’antropologia della casa come esibizione dell’avercela fatta. Del gradinuzzo sociale salito verso le terrazze del centro storico che ha già tradito in passato più d’uno. “Avevo bisogno di un posto dove incontrare le persone, di un alloggio grande. Era necessaria riservatezza”, ha detto Trenta in una intervista oltre i confini della spudoratezza. Seppure l’aveva, il bisogno, ora non più, o no? No, perché ora la sua è divenuta “una vita di relazioni, di incontri”, ha detto. Esibendo senza vergogna una vita miracolata – in cui è in buona compagnia con tutto un partito – da 14 mesi di governo del cambiamento: cambiamento da un’esistenza sorda e grigia, tutta Pigneto e università Link, a una vita “di relazioni”. Il caso Trenta è né più né meno lo specchio di persone che non erano nulla e si sono in fretta fatte casta. Al Pigneto, dove ha casa di proprietà, è pericoloso e c’è lo spaccio, ha detto. E per questo motivo aveva chiesto 180 metri quadri a San Giovanni, a 540 euro al mese. E al Pigneto, ora che ce l’ha fatta, non ci vuole tornare. Un po’ come Di Maio al San Paolo. Come darle torto?

 

 

Intendiamoci: i privilegi “castali”, poiché castali non sono, se non in certe menti annebbiate, non hanno niente di male. Ma, primo, questo non è castale: è sottobosco di fureria. Secondo, l’ex ministra Trenta, esponente di un partito di sanculotti che sbraitavano contro le auto blu e i voli di stato e persino i prezzi della buvette, dovrebbe rendersi conto dell’esibizione da avanspettacolo del privilegio che sta offrendo. Che da una parte è il ritratto politico di questa ex ministra, che ha iniziato l’avventura nel centrismo post democristiano, e hai voglia poi a rifarsi un’antropologia nella trasparenza, e nel demi-monde dell’accademia. Ma dall’altra è lo stigma del suo movimento, passato in un battibaleno dall’apriscatole all’horror vacui: oddio, e se si torna a votare e mi tolgono i privilegi? E nel privilegio della casa c’è tutto l’arrivismo politico italiano. Dalla casa popolare della mamma che Laura Taverna non voleva restituire, alla villa di Montecarlo di Fini. Sulla casa gli italiani cascano subito. Ma se ci caschi dall’altana di una caserma, sulla quale ti eri inerpicata a gridare contro la casta e per allargare l’alloggio di tuo marito, il tonfo è peggio.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"