Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

La gara Salvini-Di Maio

Salvatore Merlo

Il grillino licenzia il decreto dignità e il leghista licenzia Boeri. Ecco cosa c’è dietro la rincorsa grillopadana

Roma. Si osservano, si rincorrono, si ficcano l’un l’altro i gomiti nei fianchi, e mentre danno vita a questa gara all’ultimo fiato sul circuito della campagna elettorale permanente, si sorridono pure e si fanno vicendevolmente i complimenti, dissimulano e quasi sembrano Coppi e Bartali quando si passavano la borraccia al Tour de France. E allora lunedì sera Luigi Di Maio vede approvato finalmente il sudato “decreto dignità” in Consiglio dei ministri, ma l’altro, Matteo Salvini, come Nanni Moretti nel famoso film – “mi si nota di più se…” – non si presenta, non va a Palazzo Chigi, fa invece cucù su Instagram dal Palio di Siena alimentando così sussurri e retropensieri intorno alle ragioni vere e presunte della sua assenza, salvo poi fare gli auguri al collega: “Faccio i miei complimenti a Luigi Di Maio, è la conferma che il governo passa dalle parole ai fatti”.

 

Così passano poche ore, Di Maio si rilassa, già pregusta il sapore dolce e insieme acre dei quotidiani al mattino, divisi tra luci e ombre sulla questione dei contratti a termine e delle delocalizzazioni aziendali, i giornali finalmente concentrati sui Cinque stelle e non sugli spasmi dell’immigrazione che tanti consensi portarono alla Lega, ma ecco che ancora una volta sul più bello arriva di nuovo Salvini, instancabile. E allora il ministro dell’Interno acchiappa il cellulare, si collega in video su Facebook con lo sfondo d’una piscina a Sessa Aurunca, e sbombarda, annunciando di fatto il licenziamento di Tito Boeri, il presidente dell’Inps, che avrebbe dovuto incontrare oggi Di Maio: “C’è ancora qualche fenomeno, penso anche al presidente dell’Inps, che dice che senza immigrati è un disastro. Ma ci sarà tanto da cambiare anche in questi apparati pubblici”. Un petardo in mezzo alla stanza, proprio quando i Cinque stelle avevano già cominciato a festeggiare: “Abbiamo battuto un colpo!”. E infatti, per legge, la nomina del presidente dell’Inps è deliberata dal governo su proposta del ministro del… Lavoro. Cioè Di Maio. 

 

Sullo sfondo di questa gara che investe più il campo della rappresentazione, rispetto a quello della rappresentanza, al fondo di una competizione per il consenso che per adesso premia Salvini e relega di Maio al ruolo di inseguitore, ci sono però linee di tensione sostanziali, che non riguardano tanto l’immigrazione e la muta dissidenza di Roberto Fico, il presidente della Camera grillino che a intermittenza fa intuire di pensarla all’opposto della Lega, ma che riguardano invece lo sviluppo, l’economia e i rapporti con il mondo produttivo italiano. “Lasciamoglielo fare”, aveva detto Salvini a Giancarlo Giorgetti, riferendosi a Di Maio e al suo decreto che da settimane inquieta il nord-est, la forza propulsiva della manifattura e dell’industria italiana, il bacino elettorale storico della Lega.

 

E se è vero, come dicono alcuni leghisti, che Salvini sempre più tende a emanciparsi dalla vecchia constituency di imprenditori, partite Iva, capannoni e padroncini che fecero la fortuna di Bossi e Maroni, perché il suo orizzonte più vasto contempla anche il sud e un atteggiamento competitivo nei confronti del populismo grillino, rimangono tuttavia per lui inaggirabili le preoccupazioni di Luca Zaia e di tutto un pezzo ancora forte della Lega che al nord e alle sue esigenze rimane attaccata come le cozze sullo scoglio. Fu d’altra parte, a quanto pare, la confindustria di Varese ad ammorbidire l’insistenza leghista sul nome di Paolo Savona, considerato pericolosamente euroscettico, come ministro dell’Economia. Diceva in quei giorni Carlo Bonomi, il presidente di Assolombarda: “Anche se non ci piace come ha funzionato, crediamo nell’Unione europea”. E fu Zaia, in una tesa riunione Consiglio del federale leghista, a Roma, a fine maggio, a farsi portavoce delle aziende preoccupate dall’incertezza politica e dall’innalzamento dello spread, nei giorni in cui il governo e la nuova maggioranza grilloleghista stentavano a comporsi.

 

Sulla necessità di dissimulare i propri intendimenti e moti dell’animo, l’arte del potere lascia margini molto ampi, e anzi in qualche modo persino li giustifica promuovendo la doppiezza al rango di indispensabile qualità politica. E infatti Salvini loda Di Maio, e Di Maio enfatizza la correttezza e la sintonia con il suo alleato di governo. E’ perfettamente legittimo tenere per sé i propri arcani, e magari rovesciarne il senso in pubblico. E sia la Lega sia il M5s sono partiti che non conoscono la debolezza irritabile del Pd, impastato com’è di protesta e assenso, urletti e singhiozzi. Tuttavia sotto la superficie dei sorrisi c’è un fastidio che corre sotto la pelle, una specie d’insidia dei nervi, un brivido infinitesimale del pensiero che porta sia Salvini sia Di Maio a compulsare i sondaggi dalle loro stanze ministeriali, a gareggiare sui social, in tivù, con un occhio sempre alle urne.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.