Paolo Savona e Giuseppe Conte (foto LaPresse)

No, la vera emergenza non sono i migranti

Claudio Cerasa

La credibilità dell’Italia è messa a rischio non dalla gestione delle frontiere, ma dalla perdita di affidabilità del paese. Lavoro, spread, investimenti. Il cigno nero non è il piano B: è il piano A. Il dramma che Salvini e Di Maio non vogliono vedere

Lercio è un meraviglioso sito internet che fa satira e pubblica ogni giorno dozzine di notizie false, assurde e da ridere. Tra le splendide fake news inventate ieri, accanto a un “Rolling Stone. Tra i firmatari dell’appello anti-Salvini risulta anche Salvini” e a un “Rimini, la Isoardi va troppo al largo col pedalò e Salvini le nega i soccorsi”, Lercio ha pubblicato una notizia spassosa che pur essendo chiaramente falsa ci offre una verità inconfessabile sull’Italia. “Governo Conte, primi risultati: in un solo mese abbiamo dimezzato la credibilità del paese”. Lercio esagera – le settimane trascorse non sono quattro ma sono sei – ma il sorriso che forse per un istante vi avrà strappato la fake news diventa il suo contrario nel momento in cui l’affermazione mai detta da Conte somiglia drammaticamente alla realtà che sta vivendo il nostro paese.

 

Molti osservatori ieri si sono giustamente soffermati sulle frasi del ministro Paolo Savona che ha evocato (e questo non è Lercio) il possibile arrivo di un cigno nero nel nostro paese che potrebbe costringere l’Italia a ragionare su un’uscita dall’euro, e diversi commentatori hanno ricordato che per un paese fragile come l’Italia giocare con l’umore dei mercati è come passeggiare bendati il pomeriggio sulla Collatina a Roma. Ma concentrarsi sulla insensatezza del piano B ci fa perdere di vista la vera emergenza che si ritrova oggi di fronte l’Italia. E quell’emergenza oggi non ha a che fare con la “non emergenza sbarchi” (rispetto al 2017, gli sbarchi in Italia sono diminuiti dell’80 per cento; ripetete con noi: 80 per cento) ma ha a che fare con un’emergenza di cui a parte il cavallo di Tria della razionalità nessuno sembra volersi interessare al governo. E l’emergenza è legata proprio a quella parola lì: credibilità. Al contrario di quello che vorrebbe far credere Salvini, il futuro dell’Italia non dipende dalla sua capacità di governare i confini, cosa che da anni il nostro paese fa sempre meglio, ma dipende prima di tutto dalla sua capacità di rispondere a una domanda importante: il governo dei populisti aiuterà a rendere l’Italia più accogliente o meno accogliente per tutti coloro che ogni giorno vogliono investire nel nostro paese?

 

Salvini e Di Maio forse non se ne sono accorti, ma nelle ultime settimane all’Italia è successo qualcosa che merita di essere ricordato. Primo. Lo spread, ovvero la differenza tra l’andamento dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi, è ormai di cento punti superiore rispetto ai mesi antecedenti al 4 marzo (l’andamento dei titoli di stato a dieci anni dell’Italia da maggio, come ha notato ieri BlackRock, ha un rendimento superiore del doppio rispetto alla media dei titoli di stato di Spagna, Irlanda e Portogallo) e questo è un problema non solo per le casse dello stato (5 miliardi all’anno in più di interessi sui titoli di stato) ma anche per le imprese: un maggior spread si traduce automaticamente in un aumento del costo nel prendere soldi a debito dalle banche. Secondo. Le banche d’affari straniere registrano ormai da settimane un sentiment negativo per il nostro paese, e qualche giorno fa Merrill Lynch ha fotografato con un sondaggio fatto tra i gestori di fondi d’investimento la situazione del nostro paese: a maggio l’Italia ha rimpiazzato il Regno Unito come ultimo mercato in Europa preferito dagli investitori e il 35 per cento degli investitori interpellati ha dichiarato di voler ridurre l’esposizione sull’Italiano nel prossimo anno (a inizio maggio erano il 4 per cento). Terzo. Dal 7 maggio a oggi la Borsa Italiana ha perso l’11,4 per cento del suo valore bruciando in buona parte i guadagni accumulati da inizio anno. Quarto. Standard & Poor’s ha tagliato le stime sulla crescita del pil in Italia (+1,3 contro il +1,5 precedente) non solo per fattori esogeni (che non dipendono cioè dall’Italia) ma anche per fattori endogeni, e ha ricordato che l’Italia è sotto osservazione perché “la politica interna è il principale rischio”.

 

Si potrebbe ricordare che proprio mentre l’Inps faceva notare che la crescita dell’occupazione in Italia è avvenuta anche grazie alla flessibilità introdotta dal Jobs Act il governo come suo primo atto andava a demolire buona parte della flessibilità prevista dal Jobs Act. Ma per provare a rispondere alla domanda da cui siamo partiti forse è sufficiente mettere in fila un’altra notizia che è quella che ci ha gentilmente offerto ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che per risolvere il dramma italiano della giustizia lenta e della gogna infinita ha promesso che farà di tutto per allungare i processi (“Stop dopo le sentenze di primo grado”) e per depotenziare ogni tentativo di regolamentare la diffusione di intercettazioni (il diritto allo sputtanamento è un valore non negoziabile del populismo grillino). Aggiungete a tutto questo che il nuovo uomo forte del Csm sarà lo stesso Piercamillo Davigo che sostiene da anni che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti” e poi provate a rispondere alla nostra domanda: il governo dei populisti aiuterà a rendere l’Italia più accogliente o meno accogliente per tutti coloro che ogni giorno vogliono investire nel nostro paese? La vostra risposta vi farà capire perché il vero dramma dell’Italia – la cui sostenibilità è inversamente proporzionale al mantenimento delle promesse del contratto di governo – non riguarda l’immigrazione ma riguarda l’emergenza di cui nessuno vuole parlare: il dimezzamento progressivo della credibilità di un paese. Il piano B è un incubo, ma per trovare il cigno nero è sufficiente fare due passi direttamente qui, tra chi ogni giorno si ritrova a farsi due conti in tasca studiando il piano A del governo populista.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.