Roma, partenza migranti verso la Svezia, nell'ambito degli accordi sul ricollocamento (foto LaPresse)

Quella “concept note” europea che sbugiarda il paradigma di Salvini

David Carretta

I numeri delle relocation e la richiesta di centri chiusi in Italia spiegano dove salta il calcolo del governo sui migranti

Bruxelles. Il governo italiano del premier Giuseppe Conte sostiene di aver cambiato il paradigma delle politiche migratorie dell’Unione europea, ma questa versione dei fatti si scontra con la realtà dei numeri di migranti che gli altri stati membri si sono accollati in passato e con le difficili scelte che il governo dovrà fare in futuro se vuole davvero arrivare a una condivisione degli sbarchi nel Mediterraneo centrale. L’Italia ha “ragione” a chiedere da tempo una cooperazione regionale negli sbarchi, ma “le soluzioni ad hoc non sono sostenibili nel lungo periodo”, ha detto ieri la commissione, dopo che Roma è riuscita a forzare la mano di cinque paesi tenendo 450 migranti bloccati per due giorni al largo di Pozzallo. Lo sbarco “è stato possibile grazie a sei stati membri che hanno deciso di condividere i migranti, tra cui Italia, Francia, Germania, Malta, Spagna e Portogallo”, ha spiegato il portavoce della commissione, Margaritis Schinas. Ma quanto sta accadendo “non è un cambio di paradigma”, spiega una fonte europea: è “spinning”, al massimo “un’evoluzione” che va inquadrata nell’ambito di quanto l’Ue sta facendo dal 2015 e, soprattutto, in vista delle proposte che la commissione farà prima della pausa estiva per dare attuazione alle conclusioni del Consiglio europeo di giugno. In sostanza: per ottenere la ripartizione dei richiedenti asilo tra alcuni paesi volontari, l’Italia dovrà accettare “centri sorvegliati” – cioè chiusi – dove trasferire i migranti salvati in mare.

     

In passato non c’era stato bisogno di chiudere porti o bloccare in mare migranti per ottenere solidarietà dagli altri stati membri. Grazie al programma di ricollocamento – le cosiddette “relocation” – lanciato dall’Ue nel settembre del 2015, 12.727 richiedenti asilo sono stati effettivamente trasferiti verso altri paesi: 5.441 verso la Germania, 1.408 verso la Svezia, 1.020 verso l’Olanda, e così via, compresi paesi non europei come Svizzera e Norvegia. Il programma di relocation si è concluso lo scorso settembre, ma 12 richiedenti asilo sono in corso di trasferimento (10 in Germania, 1 in Austria e 1 in Slovenia), 2 attendono risposta dal Portogallo, mentre 628 potrebbero essere trasferiti nei prossimi mesi perché arrivati in Italia prima del 26 settembre 2017. Se il numero di ricollocamenti è stato più basso che in Grecia (oltre 34 mila contro i 12 mila dell’Italia), è a causa degli stretti criteri scelti dalla commissione nel 2015 per evitare abusi, a cui l’Italia aveva dato il suo consenso al momento di votare sulle relocation. Per poter partecipare alle relocation i richiedenti asilo devono avere una nazionalità con un tasso di riconoscimento del 75 per cento nelle domande di protezione internazionale a livello di Unione europea. Risultato: il grosso del contingente era formato da siriani, yemeniti e iracheni per la Grecia ed eritrei per l’Italia.

    


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Le relocation erano state introdotte per due anni come misura emergenziale all’apice della crisi dei migranti del 2015 per rispondere agli sbarchi in Italia e in Grecia e avevano il merito di coinvolgere tutti gli stati membri in una condivisione ordinata dell’onere (Polonia, Ungheria e Repubblica ceca sono state portate davanti alla Corte europea di giustizia per non aver accettato nessun richiedente asilo o quasi). La commissione, con il sostegno di un gruppo di paesi guidati da Germania e Italia, ha cercato di istituzionalizzare le relocation nella riforma di Dublino, con un sistema di quote obbligatorie in caso di nuova emergenza. Ma l’improbabile coalizione tra paesi dell’est (che rifiutano le quote) e paesi del sud (che rifiutano più responsabilità) ha portato alla paralisi dei negoziati su Dublino. Il ricatto della chiusura dei porti ha costretto alcuni stati membri ad accollarsi qualche centinaio di migranti (i 629 dell’Aquarius in Spagna, una parte dei 224 della Lifeline e i 50 ciascuno per 5 stati membri della Protector e Monte Sperone). Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha rivendicato “una vittoria politica”. Ma rischia di durare il tempo di un tweet.

       

La proposta che la commissione intende mettere sul tavolo per la cooperazione regionale negli sbarchi prevede strette condizioni per l’Italia. La Commissione non presenterà un testo legislativo, ma una “concept noteche serva da guida ai governi che decidono volontariamente di partecipare: i salvati in mare dovrebbero essere trasferiti in “centri sorvegliati” nei paesi di primo ingresso (gestiti e finanziati dall’Ue), dove distinguere i migranti economici (da rimpatriare con i fondi europei) dai richiedenti asilo (da ridistribuire negli altri stati membri). Sarà “una soluzione provvisoria in attesa di un accordo sulla riforma di Dublino”, spiega al Foglio un’altra fonte comunitaria.

  

   

La commissione è scettica di fronte alla richiesta di ridistribuire tutti i migranti, e non solo quelli che hanno diritto alla protezione internazionale perché “ci può essere un pull factor”. Soprattutto, l’accettazione da parte dei paesi di primo ingresso di “centri sorvegliati” è una “condizione” indispensabile per ottenere la ridistribuzione dei richiedenti asilo, spiega la fonte.

  

Grecia e Spagna, che hanno già dei centri chiusi, hanno accettato il principio. Per contro, il governo Conte ha rifiutato, in continuità con i governi Renzi e Gentiloni, che non hanno mai voluto cedere alle pressioni della commissione per creare dei centri chiusi in Italia. La ragione? Tanto a Palazzo Chigi quanto al ministero dell’Interno, chi conosce i dettagli della questione migratoria guarda i numeri e sa che è un’operazione a perdere. Con i centri sorvegliati l’Italia perderebbe la valvola di sfogo dei movimenti secondari che ha permesso a centinaia di migliaia di migranti di dirigersi illegalmente verso i paesi del nord.