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Quando il populismo minaccia l'economia anche l'impresa si rivolta

Giuseppe Berta

La contraddizione dei populisti che non possono fare a meno degli imprenditori ma li massacrano

Gli imprenditori piacciono o no ai populisti? Di primo acchito verrebbe di rispondere di no, visto che alle proprie origini il populismo americano nacque alimentato dal clima di rivolta contro gli enormi profitti e il crescente potere di coloro che erano additati all’opinione pubblica come i robber baron, i magnati dell’industria tratteggiati e caricaturati nei giornali dei muckraker con le fattezze dei Rockefeller, dei Vanderbilt, dei Carnegie. Senza la contrapposizione coi nuovi potentati dell’economia, non sarebbe salita l’onda del populismo che avrebbe impresso la spinta alla Progressive Era e alle sue riforme, e Teddy Roosevelt non sarebbe arrivato alla Casa Bianca. Allora nessuno si sognava di adoperare mai la parola “imprenditori” per designare i rappresentanti del grado più alto del capitalismo americano. Anche perché quella parola nell’idioma inglese dell’economia semplicemente non esisteva, tanto più che, quando venne giocoforza il momento di usarla, la si dovette prendere in prestito dal francese, ricorrendo al suo “entrepreneur”. In inglese, gli imprenditori erano sempre stati gli “employer”, i datori di lavoro, quelli che occupavano i loro dipendenti, worker o labourer che fossero, almeno nel linguaggio forbito dell’economia politica classica. Certo, c’erano anche i manufacturer e talora gli industrialist, ma più nella lingua corrente o nei giornali che nei saggi di teoria economica.

 

E poi, dalla rivoluzione industriale in avanti, c’erano stati i master, i padroni: una categoria che compariva esclusivamente nella stampa militante del movimento operaio, come denuncia sociale.

 

Eppure, per tornare ai populisti americani di fine Ottocento-inizio Novecento, nelle loro file c’erano molti che in seguito si sarebbero potuti definire imprenditori, se il lessico usato fosse stato quello di matrice francese, dove l’entrepreneur – fin dall’epoca in cui ne aveva parlato l’economista Jean-Baptiste Say – altri non era se non colui che organizzava in maniera creativa i fattori della produzione. Così, come aveva già intuito all’inizio del Settecento, un originale uomo d’affari d’origine irlandese ma francesizzato, Richard Cantillon, la platea di coloro che avevano il diritto di definirsi imprenditori si ampliava grandemente. A Luigi Einaudi piacque molto il suo Saggio sul commercio in generale, al punto da volerne prefare la traduzione italiana. Lo spirito libertino e dissacrante di Cantillon si incontrò con la visione anti retorica del processo economico di Einaudi, che apprezzò molto la visione larga con cui guardava al mondo degli imprenditori. Costoro, per Cantillon, non erano altri che coloro che non avevano la certezza del reddito e che perciò dovevano assicurarsi da vivere agendo sul mercato. Da un lato, quindi, c’erano coloro che avevano garantito il loro reddito dallo stato: soldati, uomini dell’amministrazione e della corte, magistrati, e così via. Dall’altro, la vasta plaga del lavoro che oggi diremmo autonomo e che per Cantillon si componeva appunto di imprenditori: mercanti, medici, avvocati, giù giù fino a ladri e prostitute, che avevano anch’essi ragione di fregiarsi di questo appellativo.

 

Questa contrapposizione fra due modi d’intendere la figura e il ruolo, economico e sociale, dell’imprenditore e di riferirvisi sono giunti fino a noi, tant’è che continuiamo a servircene in maniera interscambiabile. Sicché, nei modi d’espressione correnti, chiamiamo imprenditori Jeff Bezos e il titolare di un’azienda di una sola persona. Certo, Schumpeter ha rafforzato l’immagine dell’imprenditore come innovatore, autentico eroe del capitalismo, ma ha altresì imposto dei limiti severi alla sua azione: per lui, l’imprenditore è tale solo quando innova, sicché il suo momento è breve, destinato a consumarsi in fretta. Al punto che il destino delle famiglie imprenditoriali è, salvo rare eccezioni, scontato: “Dalla tuta alla tuta in tre generazioni”. I nomi dei grandi imprenditori della storia sono quelli che ricordano tutti: per il Novecento Henry Ford e Steve Jobs. Oggi Bezos, Zuckerberg, Musk e i protagonisti del capitalismo delle piattaforme tecnologiche.

 

I tycoon di cui si parla adesso non piacciono ai populisti. Almeno così dichiarano, anche se poi devono ricorrere ai loro servizi per diffondere messaggi più adatti ai social che ai media tradizionali. C’è voluta la multa miliardaria che l’Unione europea ha comminato a Google perché Trump spendesse una parola a suo favore. Prima le simpatie della Casa Bianca erano andate tutte alla old economy – quella del petrolio, dell’acciaio e delle automobili –, che produce ancora beni fisici e ha bisogno di tante persone per funzionare.

 

Ma il messaggio del populismo ha bisogno del sostegno di una massa di piccoli e piccolissimi imprenditori per radicarsi. Si potrebbe immaginare la forza della Lega senza le basi imprenditoriali della Lombardia e del Veneto, dove esprimono forti critiche di merito al primo atto governativo, il cosiddetto decreto “dignità”? Sarebbe efficace l’offensiva politica di Salvini se non avesse dietro di sé il consenso sedimentato di un mondo della produzione e dell’azienda che rinvia a un’Italia laboriosa e pratica? Dunque, gli imprenditori formano, nell’immaginario politico di una parte del populismo, una componente essenziale, quella che inietta linfa vitale nella vita di un paese altrimenti stagnante e immobile.

 

Nel medesimo tempo, tuttavia, il populismo non può rinunciare a far guerra agli imprenditori che formano la parte alta del capitalismo, là dove scorgono più finanza che industria, al punto di confluenza tra banca e impresa. Insomma, se utilizzassero le categorie coniate da Fernand Braudel, i populisti starebbero con le aziende e gli imprenditori che si muovono nella sfera di mezzo dell’economia, tra la dimensione della sussistenza, in basso, e quella del capitalismo, dove prevalgono le spinte al monopolio, le reti lunghe della finanza e la collusione con i poteri pubblici, in alto.

 

Questo spazio economico è quello connaturale all’Italia d’oggi, che non ha più grandi imprese su cui contare. Ciò che non calcolano i populisti di tutte le specie è che per essere protagonisti nello spazio del mercato occorre sapersi connettere alle reti lunghe dell’economia internazionale, anche se non le si può creare e dominare. Il nostro aggregato delle medie imprese, quello che da vent’anni ha mostrato più dinamismo e capacità imprenditoriale, sta operando per intensificare questi legami, anche per portare con sé e far sviluppare le sue reti di filiera. Tutto ciò presuppone l’esatto contrario del protezionismo, della chiusura e del complesso di vincoli che invece rientrano nelle parole d’ordine del populismo, destinate a essere presto contraddette dalla realtà economica.

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