Una manifestazione anti-Trump (foto LaPresse)

Frank Furedi ci spiega perché la cultura della paura non è solo da populisti

David Allegranti

“How fear Works: culture of fear in the twenty-first century”, il nuovo libro del sociologo

Roma. Negli anni Novanta, quando pubblicò “Culture of Fear”, il concetto di “cultura della paura” era pressoché sconosciuto. Vent’anni dopo, non si fa che parlarne, implicitamente o esplicitamente; dalla propaganda politica che fa leva sul risentimento verso ciò che è diverso alla paura del terrorismo islamico. Il sociologo Frank Furedi – autore fra l’altro de “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” (Feltrinelli) e “Che fine hanno fatto gli intellettuali?” (Raffaello Cortina) – è tornato sul luogo del delitto, con “How fear Works: culture of fear in the twenty-first century”, pubblicato qualche giorno fa da Bloomsbury.

 

Rispetto al tardo Ventesimo secolo, scrive Furedi, “il linguaggio che usiamo oggi è diventato più incline a usare la retorica della paura”. Ma non è solo una questione di lessico. La paura è un autentico progetto e indica come ormai la “narrativa della paura” abbia acquisito uno “status di senso comune”. Le cause sono molteplici ma l’autore è “giunto alla conclusione che la società è diventata innocentemente estranea ai valori – come coraggio, giudizio, ragionamento, responsabilità – che sono necessari per la gestione della paura. La cultura della paura non è un prodotto della natura”. E che ormai sia dappertutto, specie in politica, lo hanno confermato le ultime elezioni americane, dice Furedi, con lo scontro di retoriche della paura fra Donald Trump e Hillary Clinton. Per il sociologo, non sono infatti solo i populisti a fare un uso politico dell’angoscia, che anzi è praticato anche dalle élite progressiste e liberal-democratiche.

 

Ma perché ha sentito il bisogno di un nuovo libro dopo “Culture of fear” e “Politics of fear”? “Volevo fare un passo indietro, guardando alla storia della paura umana, per cercare di capire come si caratterizza il modo in cui abbiamo paura nel Ventunesimo secolo. Sono stato motivato a imbarcarmi in questo progetto perché avevo notato che almeno a livello di retorica la paura è diventata più prevalente da quando ho scritto il mio primo libro sull’argomento nel 1997”, dice Furedi al Foglio. E’, appunto, una retorica trasversale. Ognuno ha la sua. I partiti populisti in giro per l’Europa usano l’immigrazione come uno spauracchio, ma non sono gli unici. Domanda: questa ossessione anti immigraizone fa parte della cultura della paura – ed è quindi propaganda – oppure è un problema reale? “Credo che tutti i partiti facciano affidamento sulla politica della paura. La differenza maggiore tra i populisti e gli anti populisti consiste nella minaccia che secondo loro dovrebbe farci preoccupare: alcuni partiti gonfiano il problema dell’immigrazione, i loro avversari fanno lo stesso con la loro isteria sulla minaccia del populismo. Il problema vero non è tanto l’immigrazione ma il fatto che le decisioni sugli spostamenti delle persone vengano prese da chi fa le politiche senza consultare i cittadini. Una volta che l’immigrazione è imposta dall’alto, i cittadini – le cui vite vengono colpite da fenomeni come questo – reagiranno spesso in maniera negativa”. Un problema legato alla questione dell’immigrazione, aggiunge Furedi, “è che la maggior parte delle nazioni europee – specialmente quelle occidentali e nel nord d’Europa – rigettano le politiche di assimilazione a vantaggio del multiculturalismo. Questo incoraggia la segregazione e la frammentazione della vita pubblica”.

 

L’armamentario retorico è consistente. I partiti populisti usano le teorie del complotto per conquistare voti. In Italia alcuni membri del M5s pensano che le istituzioni siano influenzate dal club Bilderberg o, sull’immigrazione, da George Soros. Il cospirazionismo è parte della cultura della paura? “Tutte le parti hanno abbracciato idee semplicistiche sul funzionamento del mondo. L’immaginazione cospirazionista è diventata piuttosto influente. Hai la fantasia del Bilderberg promossa da alcuni movimenti, ma hai anche nuove versioni di teorie del complotto, come per esempio le interferenze russe nelle elezioni in America, Francia e Inghilterra; o il fatto che le menti di Cambridge Analytica sono responsabili della Brexit o dell’elezione di Trump. Una volta che la vita pubblica si è degradata, la politica del terrore attraverso teorie del complotto è diventata prevalente”. Solo che, aggiunge il sociologo, il “predominio dell’uso della paura in realtà mina la sua efficacia. Nel mio libro, ‘How fear Works’, sostengo che il costante dispiegamento della paura da parte della classe politica rischia di diminuire la sua capacità di ispirare e motivare i cittadini”. Ma la crescita dei movimenti populisti è dovuta alla cultura della paura? “No, la loro crescente influenza è dovuta allo smantellamento dell’accordo politico tra élite dopo la Seconda guerra mondiale. In Italia, la scomparsa della Dc, seguita dal Pci e dalla vecchia politica socialista ha creato una domanda per nuove idee e soluzioni”. Ci sono modelli simili in tutta Europa, dice Furedi: “Accolgo con favore l’emergere di nuovi partiti – non perché mi piacciono necessariamente le loro politiche – ma perché sono sintomatici di uno stato d’animo positivo, desideroso di cambiamento”. Probabilmente “la retorica dell’antipopulismo offre il miglior esempio di cultura della paura. Con il suo costante avvertimento su un ritorno agli anni 30, l’antipopulismo trasforma spesso l’allarmismo in una forma d’arte”.

 

Ma pensa che in Europa ci sia un vero scontro tra il popolo e l’establishment o élite politiche? “C’è ostilità e tensione, ma non un esplicito e coerente scontro politico. Le vecchie élite politiche sono sulla difensiva e sono pienamente consapevoli del fatto che mancano di legittimità. Molti cittadini non si fidano di loro ma non sono in grado di trovare un mezzo efficace con cui esprimere la loro voce. E questo perché il conflitto raramente assume una forma politica esplicita e coerente”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.