Le parole chiave della neolingua gialloverde, da Twitter al governo
Basta poco per intendersi fra compari sovranisti e felpa-stellati: ecco il lessico comune a Lega e Movimento 5 stelle
Roma. C’è tutto un lessico che risveglia immediati riflessi pavloviani, basta poco per intendersi fra compari sovranisti e felpa-stellati, come si fa con certe strette di mano massoniche quando ci si deve riconoscere (ai massofobici del governo Conte verrà un colpo apoplettico per l’accostamento). Quelli che finora twittavano minchiate ossessive e complottiste adesso sono al governo del paese, sicché capiterà di sentirle in tv sempre più di frequente queste paroline a uso dei Borghi. “Rosicare” viene usato indistintamente dai troll come dai parlamentari del M5s e della Lega (in certi casi la differenza nemmeno si nota) per definire qualsiasi critica o ironia, anche velata, alle magnifiche sorti e progressive promesse dall’Avvocato del Popolo e da suoi twittatori seriali. Se alzi un sopracciglio sul decreto Di Maio, sul taglio dei vitalizi o sulla nomina di Marcello Foa a presidente della Rai, sei inevitabilmente uno che “rosica”, che è geloso o invidioso, che tu sia avversario politico certificato o giornalista poco cambia. Il “governo del cambiamento” non sembra molto diverso dall’odiato nemico che dava del “gufo” o del “rosicone” ai “professoroni” o ai “professionisti della tartina”. E se dell’uso del termine “sorosiano” abbiamo già detto su queste colonne – basta evocarlo per scatenare i famelici appetiti antisemiti dei commentatori da tastiera – non è che le parole chiave siano finite qui, anzi.
Quando leggete o sentite “eurocrazia imperante” inevitabilmente è Claudio Borghi a parlare, mentre rassicura i suoi follower che gli chiedono conto di certi atteggiamenti troppo cauti dell’esecutivo, dove c’è il ministro dell’Economia Giovanni Tria a immolarsi contro i desideri no-euro. Quando invece spunta la parola “euroinomani”, son sfumature!, siamo già in zona Alberto Bagnai. La lotta al “capitalismo finanziario” poi è materia per Alessandro Di Battista, se col “turbo” per Diego Fusaro. Tutti, e questa è la parola d’ordine suprema , quella che contiene le altre (una parola per domarli, una parola per trovarli, una parola per ghermirli e nel buio incatenarli), tutti insomma si dicono “sovranisti”, e aggiungono: il sovranismo non è certo una colpa. Lo garantisce pure Giorgia Meloni, sorella d’Italia. E infatti non lo è, ma c’è da dire che sovranismo è come il “puffare” dei puffi, vuol dire tutto e niente e i populisti, altra parola chiave, orgogliosamente la usano per nascondere altro. Si dicono sovranisti perché dirsi nazionalisti fa brutto, rievoca spettri novecenteschi ed è meglio non agitare troppo il popolo che vive fuori dalle ossessioni dell’infosfera, dove invece sembra che sia perennemente in corso un complotto mondiale, dell’eurocrazia o della Trilateral. Siamo sempre lì, insomma, al piani Kalergi e ai Protocolli dei Savi di Sion. Ma c’è una ragione, c’è un perché i sovranisti si nascondano dietro il vittimismo e l’accusa di antidemocrazia a chi non è d’accordo con lo stile della casa. Lo si capisce appunto dal linguaggio, perché, diceva Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. E in questo caso i limiti del mondo felpa-stellato si rivelano attraversi precisi tic linguistici. Come scrive Ivan Krastev in “After Europe”, un libro che andrebbe tradotto anche in Italia, “la caratteristica principale del populismo è l’ostilità non all’elitismo ma al pluralismo”. E infatti i sovranisti alle vongole usano “élite” ed “elitario” come un insulto, ma è in realtà la società aperta il loro avversario. A ciascuno insomma il suo nemico. Un tempo nel Pd si davano di “blairiano” in luogo di traditore del popolo al soldo delle multinazionali.
Antifascismo per definizione