Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Giancarlo Giorgetti (foto LaPresse)

Un dignitoso disastro

Alberto Brambilla e Maria Carla Sicilia

Il primo decreto lavoro-imprese del governo gialloverde promette di mettere l’Italia fuori mercato. Meno investimenti e imprese ingessate. Girotondo tra esperti e imprenditori

Un debutto disarmante

di Elsa Fornero (Università di Torino)

Diamo per scontato che le intenzioni del ministro del Lavoro nella stesura del decreto “dignità” siano buone (ed è già molto, visto che un simile atteggiamento non ha mai contraddistinto né il ministro, né gli esponenti del Movimento 5 stelle e meno che mai quelli della Lega, per i quali gli avversari politici sono in generale “nemici del popolo” asserviti a interessi stranieri o delle élite e comunque insensibili a quelli degli “italiani”).

 

Bastano le buone intenzioni per produrre buoni risultati? Senza scomodare il detto secondo il quale “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”, in che misura il decreto potrà conferire dignità ai lavoratori, senza ridurne, e magari aumentandone, il numero? Pur abbandonando ogni pregiudizio negativo (ci vuole un po’ di sforzo, ma l’onestà intellettuale aiuta) la risposta è scoraggiante.

 

Anzitutto il decreto sconta un tasso di incoerenza francamente disarmante: da un lato, restringe le possibilità di ricorso ai contratti a termine e ne aumenta il costo, elementi che di per sé ben difficilmente potranno portare a un aumento della domanda di lavoro, anche in un ambiente macroeconomico relativamente favorevole; dall’altro, rende più costoso, irrigidendolo, il contratto di lavoro a tempo indeterminato, quello che dovrebbe, per ipotesi, conferire maggiore dignità al lavoro e che pertanto dovrebbe, secondo gli obiettivi del governo, assorbire una maggiore quota di contratti, sostituendosi al tempo determinato.

 

E qui c’è una prima lezione per i nuovi governanti: a dispetto di tutta la loro impazienza nel volere risolvere i problemi “degli italiani”, il decreto mette a nudo in modo eclatante che gli italiani non hanno tutti i medesimi problemi e che, in particolare, quelli delle imprese non coincidono, almeno nel breve termine, con quelli dei lavoratori. Mentre le promesse della campagna elettorale, che ignorano vincoli di bilancio e costi-opportunità, possono essere tali da generare in tutti aspettative positive, la politica è l’arte dell’equilibrio tra interessi contrapposti, e il governo deve decidere se vuole cercare di aumentare l’occupazione (come, sia pure in modo lento e accidentato, è comunque avvenuto in questi anni) oppure sventolare le bandiere della retorica, ottenendo risultati opposti a quelli sperati.

 

Non solo: talvolta il conflitto di interessi è in capo agli stessi soggetti, nel senso che gli interessi dell’oggi divergono da quelli di medio periodo: non è detto, per esempio, che per i lavoratori la combinazione di due lavori meno tutelati (a tempo parziale) nella stessa famiglia non sia da preferirsi rispetto a un solo lavoro più tutelato.

 

Il decreto appare così fortemente sbilanciato a danno delle imprese e non ha quindi molto senso dire (come pure è stato detto) che il provvedimento è “a costo zero”. Magari esso non comporta costi immediati per il bilancio pubblico, ma i costi per famiglie e imprese potranno essere salati. E lo saranno, in assenza di cambiamenti, per il probabile effetto di riduzione della domanda di lavoro, senza il beneficio della sostituzione di lavoro con maggiore dignità (a tempo indeterminato) a scapito del lavoro avente minore dignità (tempo determinato), ammesso che l’assioma sia sempre valido. Ma c’è di più: il decreto infatti peggiora l’ambiente economico sfavorendo gli investimenti, in particolare di imprese estere che vogliano insediarsi in Italia. Chi mai vorrà investire in Italia se a fronte di possibili incentivi (peraltro indefiniti) c’è la prospettiva di dovere non soltanto restituirli ma anche di corrispondere multe e interessi elevati? Insomma, anche per il governo del cambiamento la strada della soluzione dei problemi si presenta, a dispetto di tutti gli annunci, alquanto in salita.

Chiamatelo “decreto rigidità”

di Carlo Stagnaro (Istituto Bruno Leoni)

Lo hanno chiamato “decreto dignità ma, per essere più precisi, avrebbero dovuto chiamarlo “decreto rigidità”. Il provvedimento varato lunedì dal Consiglio dei ministri, infatti, nasce da un’interpretazione ingenua dei problemi strutturali italiani, e offre più mali che cure. L’idea di fondo è che le imprese godano di troppa libertà e possano pertanto abusarne: quando invece la patologia italiana è, all’opposto, la bassa produttività.

 

Il decreto interviene su tre fronti. Per quanto riguarda la disciplina del lavoro, aumenta le indennità di licenziamento per i contratti tempo indeterminato, e opera un giro di vite su quelli a tempo determinato. Il probabile risultato sarà che una parte dei lavoratori che sarebbero stati assunti in modo stabile dovranno accontentarsi di un rapporto a termine, e una parte di quelli a termine finiranno in nero. Rendere i rapporti più onerosi e spaventare le imprese con sortite come quella sui rider (poi rientrata) non otterrà altro risultato che metterle sul chi vive e spingerle all’estrema cautela, proprio quando bisognerebbe invece frustare il cavallo dell’economia.

 

C’è poi un pacchetto di misure definito “anti delocalizzazioni”, che sarebbe più appropriato definire “anti localizzazioni”: l’erogazione di incentivi viene subordinata a tali e tanti vincoli che molte imprese, pur di non rimanere impiccate alle proprie scelte di investimento, eviteranno di approfittarne. Questo danneggerà soprattutto il sud. Ma, venendo meno gli strumenti di “investment attraction”, il risultato netto sarà quello di rendere il nostro paese meno appetibile. Viene quasi da chiedersi se non sia un’operazione geniale per disboscare finalmente la giungla di agevolazioni e spese fiscali: se così fosse, il governo farebbe meglio a seguire la via dritta e utilizzare i conseguenti risparmi per continuare a tagliare le aliquote Ires.

 

Infine, il decreto vieta la pubblicità al gioco d’azzardo legale, con l’eccezione delle iniziative pubbliche. Il paradosso è che vengono parimenti tutelati il gioco illegale e quello di stato. Questo decreto tradisce il rigetto della libertà dell’individuo, nel nome di una visione iper-semplificatoria dove esistono solo lo stato e l’economia criminale, senza che vi sia spazio per le interazioni di mercato. In questo mondo, a prosperare saranno solo gli avvocati, visto che ogni comma darà luogo a un enorme contenzioso. Altro che dignità: qualunque cittadino o impresa perbene dovrebbe alzarsi e dire “se queste sono le regole del gioco, non sum dignus”.

Un decreto investitor-repellente

di Alberto Bombassei (presidente di Brembo, ex parlamentare)

Sono stato parlamentare nella legislatura conclusasi con le elezioni del 4 marzo e da allora ho evitato di fare qualsiasi commento che potesse sembrare pregiudizievole rispetto alla formazione del nuovo governo e ai suoi primi passi. Oggi lette le prime indicazioni su quello che viene definito “decreto dignità” mi permetto, da imprenditore, di commentarne i contenuti salienti. Ovviamente non so quale forma prenderà e se quindi queste prime indicazioni siano ancora modificabili nella sostanza. Mi preme in particolare fare qualche considerazione sulle sanzioni che il decreto prevede per le multinazionali. Chi decidesse di investire in Italia ricevendo, in qualche forma, aiuti pubblici, se successivamente decidere di ritornare sui propri passi e uscire dal nostro paese, verrebbe penalizzato da ammende fino a 4 volte gli aiuti ricevuti. La logica con cui è costruito questo provvedimento è esattamente l’opposto di quanto accade in tutti gli altri paesi che operano per attrarre investimenti esteri. Negli Stati Uniti, in Messico e in altri paesi europei dove Brembo è presente tutti – sia a livello nazionale sia regionale – sono stati attivissimi nel proporci condizioni favorevoli. Ci hanno messo a disposizione strutture per semplificare il più possibile l’investimento e, per quanto potevano, ci hanno offerto agevolazioni, anche economiche. Ovunque si cerca di creare condizioni favorevoli per favorire benessere e occupazione. Non voglio valutare il principio che ha portato a questo decreto, ma è sbagliato anticipare una potenziale punizione a chi intende investire in Italia. E non si vede la ragione per la quale lo si debba fare per decreto. E’ meglio negoziare caso per caso le condizioni da offrire a chi sta valutando un investimento in Italia, promuovendone i vantaggi (e adoperandosi per renderli possibili) e negoziando le eventuali limitazioni. L’occupazione e il benessere si difendono col pragmatismo e il senso della realtà non agitando principi che li penalizzino.

Grave la volatilità della legislazione

di Pietro Ichino (giuslavorista, già senatore Pd) 

Si riduce la durata massima dell’impiego a termine da 36 a 24 mesi; bene, purché non ci si attendano effetti vistosi: i casi in cui si superano i 12 mesi sono un’infima minoranza. Si reintroduce l’obbligo del giustificato motivo per le proroghe del contratto a termine: ottima cosa per gli avvocati giuslavoristi, cui viene restituito il ricco tasso di contenzioso giudiziale, molto superiore alla media europea, del quale erano stati privati dalle riforme del quadriennio 12-15. Poi si aumentano da 4 a 6 le mensilità dell’indennizzo in caso di licenziamento nei rapporti di lavoro stabili: e qui davvero è difficile capire la logica che muove il governo, perché questa misura costituisce un potente incentivo – questo sì efficace – per la scelta del contratto a termine rispetto al contratto stabile.

 

Nel § 14 del programma di governo Lega-M5s, sul lavoro, c’era una cosa giusta: investire sui servizi per l’impiego e farli funzionare bene. Conteneva un’implicita critica, fondatissima, nei confronti dei governi Renzi e Gentiloni, che questo non hanno saputo fare. Ma far funzionare i servizi per l’impiego è cosa molto più difficile che riscrivere due norme sulla Gazzetta Ufficiale. Occorrono la volontà e la capacità di ristrutturare una struttura pubblica renitente al cambiamento, un know-how tecnico specifico, e molto più tempo di quello che occorre per emanare un decreto-legge da dare subito in pasto all’opinione pubblica. Dunque, dell’unica cosa di cui ci sarebbe stato bisogno, almeno per ora non si fa nulla. Si torna invece ad azionare i “tabelloni rotanti” della legislazione del lavoro, per il gusto del cambiamento purchessia. Non rendendosi conto del fatto che questo cambiamento costituisce di per sé un costo aggiuntivo per le imprese, non corrispondente a un beneficio per i loro dipendenti. Al contrario: la volatilità della legislazione del lavoro costituisce di per sé un disincentivo a investire nel nostro paese, con il conseguente effetto depressivo sulla domanda di lavoro e in definitiva sul potere contrattuale dei lavoratori.

L’industria non è fatta di fattorini

di Michelangelo Agrusti (Unindustria Pordenone)

Trovo curiosa la definizione di provvedimenti legislativi fatta su schemi etici. Per cui non riesco ad allineare il concetto di dignità all’insieme delle misure decise dal governo. Credo che la “dignità” appartenga, tra le altre cose, al fatto che un lavoratore abbia una giusta retribuzione in funzione della mansione che svolge. Il provvedimento in sé torna indietro senza tenere conto del cambio radicale del mercato del lavoro, delle tipologie di nuove produzioni in questo paese e in generale nel mondo. Si vuole togliere concretamente la possibilità di creare posti di lavoro facendo diventare meno competitivo e attrattivo questo paese. Quindi chiediamoci se questo è dignitoso. Senza contare che il lavoro non si crea per decreto né con provvedimenti di tipo dirigistico. Le imprese sono capaci di mantenere competitività non sacrificando capitale umano: nelle Pmi il rapporto imprenditori e dipendenti è talmente stretto che gli imprenditori non di rado si sono tolti la vita pur di non licenziare i dipendenti. E’ la stabilità del sistema economico a rendere stabile il lavoro, non accade con una legge. Sulle delocalizzazioni si prendono provvedimenti generalizzati. Non si va a punire i furbi – quelli che prendono i soldi e scappano – ma si creano seri pregiudizi al fatto che grandi gruppi vengano a investire in Italia. Dobbiamo guadagnarci la persistenza degli investitori stranieri. Sono convinto che la componente leghista del nord abbia presente questi problemi vivendo nella parte più industrializzata d’Europa, uscita dalla crisi con fatica, e confidiamo che nell’iter in aula si trasformi il decreto. Sembra purtroppo che d’improvviso all’attenzione di tutti ci siano i fattorini e non un sistema di relazioni industriali sofisticato.

E’ complicazione, non cambiamento

di Marco Gay (presidente Anitec-Assinform, Associazione Aziende di Information Technology)

Non rappresenta un passo avanti anche in considerazione del fatto che – al netto che i numeri dell’occupazione possono sempre essere migliorati – un mercato del lavoro capace di muoversi, crescere e creare opportunità deve fare evolvere imprese e lavoratori in un processo corale di progresso e apprendimento. In un mercato del lavoro moderno nessuno vuole togliere tutele o garanzie perché tutti noi che facciamo impresa aspiriamo a volere dare garanzie e tutelare il lavoro con l’ottica di fare aumentare il valore aggiunto legato alla produzione. Mi sarei aspettato azioni più coraggiose – e in positivo come strumenti di sostegno al reddito e ricollocazione – anche perché credo che, essendo il primo atto del governo, avrebbe potuto dare una indicazione costruttiva del futuro e non di restaurazione. Non c’è una contrapposizione fra lavoratore e datore di lavoro, come si legge tra le righe del decreto. Credo che questo sia uno steccato da superare: il successo di impresa è in larghissima parte costruito dalle persone che vi lavorano, per questo serve riqualificazione professionale continua. Oggi più sono bravo a mettere intelligenza nei miei prodotti, più sto sui mercati e più sono parte di un mercato in cui qualcuno vuole investire. Non conosco imprenditori che rinunciano a cuor leggero a un collaboratore. Nessuno vuole lasciare indietro nessuno ma dare per assodato che l’impresa è sempre quella che se ne approfitta mi sembra la premessa non corretta se si vuole costruire un clima di crescita e benessere. Se guardiamo al nostro vero mercato domestico – che si chiama Europa – ovunque si cerca di costruire delle traiettorie comuni e coerenti. Inasprendo i rapporti non si ottiene un risultato positivo. Lavoro con le startup e abbiamo bisogno di accelerare, non certo di irrigidire le regole che invece di aumentare i posti di lavoro faranno crescere gli adempimenti burocratici e i contenziosi legali.

Imprese inascoltate e ingessate

di Susanna Moccia (Fabbrica della Pasta di Gragnano, vicepresidente Giovani di Confindustria)

Come imprenditori speriamo ci sia un momento di confronto. Si vogliono mantenere delle promesse elettorali ma è ingiusto che si portino avanti delle idee senza consultarci. Siamo noi che ogni giorno andiamo sui mercati con il coltello tra i denti. Oggi con un “clic” siamo dall’altro capo del mondo e dobbiamo essere competitivi a livello internazionale e avere una forza lavoro che ci dia la possibilità di essere flessibili. E una forza lavoro che sia altrettanto flessibile. Dobbiamo essere capaci d’innovare e cambiare rapidamente senza incappare in stalli burocratici. Quelle contenute nel “decreto dignità” sono proposte volte più al passato che al futuro. La flessibilità del lavoro oggi è fondamentale non solo per le imprese ma anche per i giovani: se chiedi a un ragazzo cosa vuole fare da grande non ha chiara la sua professione della vita. Può desiderare la possibilità di cambiare. E’ certo giusto che ci siano contratti a tempo indeterminato e il desiderio di una stabilità di lungo termine ma non rispecchia, credo più, le esigenze dei nostri ragazzi.

Un colpo (anche) al turismo

di Bernabò Bocca (FederAlberghi, federazione albergatori)

Siamo molto preoccupati per la stretta contenuta nel “decreto dignità” sui contratti a termine, che nel nostro settore non sono sinonimo di precarietà. La stagionalità dei nostri contratti è una forma strutturale di occupazione che corrisponde a un’esigenza delle nostre imprese, legate a picchi di lavoro che si raggiungono in determinati periodi dell’anno. In particolare ci preoccupa la reintroduzione delle causali, da cui possiamo aspettarci una nuova stagione di contenziosi nei casi in un cui un contratto non venga riconfermato. Un problema che era stato invece affrontato con il Jobs Act, che per noi ha rappresentato un ottimo strumento di lavoro: una norma chiara, che ci ha permesso di assumere lasciandoci la libertà di interrompere un contratto qualora non ci fosse più fiducia nei confronti di un lavoratore, senza il timore di andare incontro a contenziosi. Il Jobs Act ha messo gli imprenditori a riparo dalle ingiustizie che talvolta si verificano nei tribunali del lavoro e lo ha fatto grazie a regole ben definite, capaci di abbattere i motivi di eventuali contese. Quello che chiediamo è semplice: lasciate le imprese lavorare nel libero mercato, perché un lavoratore impiegato con un contratto a tempo determinato sarà sempre meglio di un disoccupato. Ed è quello che chiederemo al ministro Gian Marco Centinaio, a cui è stata affidata la delega al Turismo nelle stesse ore in cui veniva approvato il decreto legge. Al ministro, che si è dimostrato sensibile alle istanze del settore, chiederemo di essere difesi al tavolo del Consiglio dei ministri, anche con l’introduzione di emendamenti che possano tutelare le nostre imprese.

Meno lavoro, non meno precariato

di Andrea Dell’Orto (vicepresidente esecutivo di Dell’Orto Spa, carburatori e sistemi di iniezione)

Per vincere la guerra alla disoccupazione e al precariato sono necessarie armi appropriate e una buona dose di munizioni. E il decreto legge “dignità” sembra esserne carente. Non solo, da un primo approfondimento emerge che proprio quella contro la precarietà rischia di essere la prima battaglia persa, perché le nuove regole appaiono poco utili rispetto al raggiungimento di questo obiettivo. L’incidenza dei contratti a termine sul totale degli occupati nel nostro paese è infatti in linea con la media europea e il risultato potrebbe essere paradossalmente avere meno lavoro, non meno precarietà.

 

Confindustria ha già preso posizione in questo senso e dell’osservatorio privilegiato della Lombardia non può cambiare la valutazione negativa di questi iniziali provvedimenti.

 

Parimenti il tema delle delocalizzazioni appare affrontato con logiche punitive, ancorché necessarie dove si ravvedono comportamenti opportunistici, e misure dalla portata tanto ampia quanto generica. Prevalgono ancora incertezza e frammentarietà del quadro delle regole in cui ci troviamo a operare, quando la necessità di abbassare il costo del lavoro e, ad esempio, di proseguire verso una maggiore semplificazione e snellimento burocratico è ormai irrimandabile.

 

Il tema del lavoro è centrale, sono le imprese a crearlo. Le regole del gioco devono favorire i processi di sviluppo in modo sussidiario, promuovere la competitività delle aziende, permettere di attrarre e sostenere nuovi investimenti, tenendo inevitabilmente conto anche di alcune innovazioni introdotte negli ultimi anni che hanno contribuito a innescare quella crescita nel mercato del lavoro descritta dai recenti dati Istat.

 

In un settore così dinamico e strategico come quello in cui opero ritengo necessario mettere in campo soluzioni per consolidare i positivi segnali che provengono del mercato. Per far questo è opportuno continuare a promuovere aggregazioni e reti d’impresa, favorire lo sviluppo della fabbrica intelligente e supportare gli investimenti in ricerca e innovazione. Questo dal mio punto può realmente permettere di vista di creare più opportunità di lavoro e di sviluppo.

Un incentivo al lavoro nero

di Alessandro Ramazza (Assolavoro, associazione nazionale agenzie per il lavoro)

Il “decreto dignità” non interviene minimamente su oltre 3 milioni di lavoratori in nero, sui 300 mila occupati nelle cooperative spurie – senza garanzie e con una retribuzione del 20 per cento sotto la soglia prevista dai Ccnl – e sulle centinaia di migliaia di altri lavoratori con nessuna tutela. Quello che fa è aggiungere limiti alla forma di flessibilità più tutelante: la somministrazione di lavoro. Il lavoratore in somministrazione, infatti, ha per legge gli stessi diritti, la stessa retribuzione e tutte le tutele previste per il lavoro dipendente diretto dell’azienda presso cui presta la sua attività. A queste tutele si aggiunge la formazione: in un anno le agenzie per il lavoro formano oltre 240 mila persone, di cui almeno un terzo accede poi a una reale occasione di impiego. L’Ente bilaterale per il lavoro temporaneo (Ebitemp) finanzia inoltre più di 10 milioni di euro per coprire le spese mediche e odontoiatriche, indennità per maternità, asilo nido e altro ancora. Tutto ciò in un sistema integrato di servizi – tutti gratuiti, a differenza di quanto ancora credono alcuni – che va dall’orientamento, alla formazione, alla ricerca e selezione finalizzata all’assunzione. Un sistema che si traduce in oltre 700 mila contratti ogni anno, con diritti, tutele e retribuzione come da Ccnl, mentre altre 52 mila vengono selezionate per profili medio alti e contratti stabili con le aziende clienti delle agenzie. Limitare questa flessibilità tutelante significa favorire recrudescenze del sommerso e mettere a rischio anche gli oltre 10 mila professionisti che nelle 2.500 filiali delle agenzie per il lavoro offrono servizi a chi un lavoro lo cerca. Se poi consideriamo che l’incidenza del lavoro in somministrazione nel nostro paese è intorno all’1,5 per cento, ancora sotto la media europea (1,9 per cento) e distante, per esempio, dalla Germania (2,4 per cento) è davvero difficile comprendere le ragioni di questo provvedimento, deciso peraltro senza nessun confronto con le parti sociali.

La dignità comincia a scuola

di Stefano Cianciotta (Presidente Osservatorio Infrastrutture Confassociazioni, Confederazione associazioni professionali)

Il “decreto dignità” nasce con una concezione novecentesca del lavoro: solo la stabilità dà sostanza all’occupazione.

In Italia il 15 per cento dei contratti è a termine e questa cifra è in linea con la percentuale europea. La sicurezza psicologica e sociale delle persone tutelata sul lavoro è un bene di valore inestimabile, ma non può essere l’unico requisito che va individuato quando si discute di lavoro. Nel pubblico, per esempio, si è arrivati al paradosso che l’eccesso di protezione ha mortificato in alcuni casi la dignità del lavoro, perché la prestazione non è sempre condizionata dalla competenza.

 

Ben vengano gli strumenti che proteggono soprattutto i giovani dagli abusi, ma cosa diversa è sostenere (come di fatto accade nel “decreto dignità”) che il lavoro è dignitoso solo quando diventa stabile.

 

Il mercato del lavoro che privilegia la dignità è quello che valorizza le competenze e la meritocrazia, che investe sulla formazione, che consente a chi perde il lavoro di essere sostenuto con strumenti di politica attiva che permettono al lavoratore di essere ricollocato nel breve tempo possibile. Il mercato del lavoro “dignitoso”, in un contesto nel quale la mobilità dei talenti è altissima, è quella che dà valore all’educazione come fattore di sviluppo e di crescita individuale e collettiva. Il “decreto dignità” sarebbe dovuto partire da queste premesse, senza demonizzare il sistema del lavoro, ma valorizzando al contrario l’unico momento che rende ogni essere umano dignitoso: la Scuola. Se non si riparte dalla formazione difficilmente una persona potrà avere un percorso professionale dignitoso. Alcuni mesi fa l’Eurostat ha diffuso un dato tragico: il 26,1 per cento dei 25-34enni – target nel quale l’Italia ha il triste primato dei disoccupati in Europa – conseguirà al massimo la licenza media, ha affermato l’Istituto europeo di statistica. Un italiano su quattro non arriverà mai alla laurea. E difficilmente lavorerà in modo continuativo, aggiungiamo noi, perché scarsi livelli di istruzione e di qualificazione segnano una elevata difficoltà a trovare un lavoro stabile, condizione che nel lungo periodo costituisce le premesse per la disoccupazione e l’espulsione dal mercato del lavoro.

 

Questi numeri confermano il sostanziale fallimento dell’impalcatura della riforma Berlinguer, il cui scopo era quello di aumentare il numero dei laureati, e allontanano l’Italia dagli obiettivi della strategia di Europa 2020. Entro tre anni, infatti, gli adulti in possesso del titolo terziario dovrebbero essere almeno il 40 per cento. Gli obiettivi della Strategia di Europa 2020, però, erano stati concepiti prima del decennio di crisi, e soprattutto senza ipotizzare quale sarebbe stata l’accelerazione al cambiamento e alla innovazione di Industria 4.0, che altri paesi stanno utilizzando per ridefinire l’offerta formativa (Regno Unito) e la riorganizzazione dei processi industriali (Germania). Nel 2016 le imprese tedesche hanno aumentato gli investimenti in robotica del 36 per cento rispetto all’anno precedente. Eppure la disoccupazione giovanile è rimasta su livelli fisiologici, non superiore al 6 per cento. Il lavoro, insomma, non lo tolgono i robot e non diventa dignitoso per decreto, a meno che non si tratti di impieghi ripetitivi e facilmente riproducibili anche dagli algoritmi e da chi ha bassa scolarizzazione.

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