Giuseppe Conte

Il muto dissenso

Salvatore Merlo

Tragedia e commedia di un premier che fa il vice dei suoi vice, e che mugugna senza riuscire a ribellarsi

Roma. Vittorio Sgarbi lo chiama “il vicepresidente di due vicepresidenti” e immaginare adesso Giuseppe Conte irritato con Matteo Salvini, cioè con quello che lo ha assunto, perché non lo fa comandare, ha lo stesso sapore incongruo di quando Roberto Fico faceva il contestatore muto di Luigi Di Maio. Non diceva mai nulla, Fico. Al massimo bofonchiava in napoletano. Eppure gli venivano attribuiti pensieri così complessi che il primo a stupirsene con un certo compiacimento doveva essere proprio lui.

   

Anche Romano Prodi non aveva un partito, ma aveva relazioni, contava, era il capo eletto della sua coalizione, e nel giorno del suo compleanno, Massimo D’Alema, che era il perfido azionista di maggioranza del centrosinistra al governo, non avrebbe mai potuto dirgli, come invece ha fatto Giancarlo Giorgetti un mese fa rivolgendosi scherzosamente a Conte, che “quando abbiamo selezionato il suo curriculum io l’avevo detto che era vecchio”. E subito quasi tutti, osservandolo dondolare la libera ciocca di capelli sulla fronte, avevano infatti capito, evidentemente ancora prima dello stesso presidente del Consiglio, che qualcosa di drammatico era inscritto nel destino d’un capo di governo per procura, ligio al suo impiego conformistico, un uomo che prima o poi avrebbe tentato di esercitare il suo ruolo finendo tuttavia con lo scoprire, al fondo di una fila innocente di piccole umiliazioni, che fatalmente questo non è possibile.

   

“Non posso scoprire dalle agenzie qual è la linea dell’esecutivo sull’immigrazione. Una linea che tra l’altro non coincide con la mia”, avrebbe detto Conte a Giorgetti, secondo Repubblica. E poi: “Così non si va avanti”. Ma c’è qualcosa di strano e quasi d’irreale in questa rivolta dell’uomo qualunque. Senza un partito, senza voti e senza relazioni politiche, il presidente del Consiglio è stato persino privato, dal suo vicepresidente Di Maio, della possibilità di scegliersi il portavoce, cioè il massimo incarico fiduciario, cosa che corrisponde all’incirca alla crudeltà di avergli negato non solo l’autonomia pubblica ma persino quella privata. E infatti, ancora prima di issarlo sul trono girevole di Palazzo Chigi, i Cinque stelle, com’è noto, gli avevano appioppato Rocco Casalino, che adesso entra ed esce dallo studio di Palazzo Chigi come fosse il confessionale del Grande Fratello, ascolta le telefonate, maneggia l’agenda e con lo stuolo di collaboratori che si è portato dietro presidia i corridoi e pure l’anticamera del capo del governo, al punto che talvolta introduce lui gli ospiti, e allora guarda tutto orgoglioso il suo presidente pettinato e ben vestito spiegando, com’è capitato a Marco Travaglio che era andato per un’intervista (slurp!): “E’ tanto bravo. Pensa che si scrive pure i discorsi da solo”. Non occorre nemmeno agitarlo prima dell’uso. Va solo tappato (o stappato) al momento giusto, come quando al G7 di Charlevoix, in Canada, mentre stava rispondendo a più domande del dovuto, Casalino l’ha preso per un braccio portandoselo via.

      

E allora l’ira di Conte nei confronti di Salvini, questa sua rivolta sussurrata e da retroscena, ricorda quella protesta non meno incongrua di Fico, detto il Sacharov afono, quando l’anno scorso venne filmato a Rimini assieme a Di Maio in una scena da cinema muto, roba da Charlie Chaplin o Buster Keaton: Fico che si agitava nel più assoluto silenzio, roteava gli occhi, intrecciava le dita a preghiera, se le sbatteva contro il petto con teatrale vivacità, mentre l’altro lo ascoltava con le mani in tasca e l’aria annoiata. Non una parola, un fiato, una mezza sillaba. E poi tutti però a scrivere della fronda di Fico, come se per davvero potesse essere leader dei ribelli uno il cui atto politico più rilevante finora è stato quello di prendere l’autobus, cosa che equivarrebbe un po’ alla pretesa che possa fare il capo del governo, e addirittura adirarsi perché non lo fanno decidere, uno che non è soltanto vice dei vicepremier ma è anche portato dal portavoce.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.