Il premier Giuseppe Conte con i giornalisti a Palazzo Chigi (foto LaPresse)

D'indecisione fare virtù, una mattina con il presidente Conte

Salvatore Merlo

Economia, Tav, vaccini. Parlare di qualsiasi cosa dicendo pochissimo. Fenomenologia del cortese signor “nì”

Roma. Persino Rocco, il portavoce che dicono Luigi Di Maio gli abbia messo accanto per spiarlo, non è più Cerbero, ma con soavità e modi da ospite premuroso porge il microfono ai giornalisti venuti a Palazzo Chigi, sorride, ricorda i nomi di ciascuno, “l’idea è quella di una chiacchierata rilassata”, arieggia, con le mani giunte, come un oste attento alla clientela, proprio sotto l’arazzo che raffigura un trionfo di Alessandro Magno a cavallo. E lui, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è seduttivo e generoso nel concedersi alle domande dei cronisti, attorno a lui, in semicerchio, prima come fiere pronte a mordere, e poi anche loro sempre più distesi di fronte a questo professore brevilineo e ben vestito, i bottoni in madreperla sul blazer blu, il cronografo Iwc, senza mai un capello né un pensiero fuori posto, capace di frasi rotonde come le cupole delle chiese cattoliche, tirato a lucido come una ceramica di Caltagirone, tanto che osservandolo viene voglia di tirargli una palla di stoppa per vedere se per caso rimbalza: “Il mio bravissimo sarto è qui a Roma, ma non vi dico chi è. Tanto non mi fa lo sconto”.

 

Lui che in realtà non dice nulla, ma lo dice proprio bene. La Tav si farà? Sì, ma anche no. I vaccini? Sì, “ma bisogna trovare un equilibrio tra il diritto alla salute e quello all’istruzione”. I soldi per la manovra? Non ci sono, “ma li troveremo”. Le riforme? “Si faranno”, ma non subito. E insomma neutralizza, anestetizza, addormenta, aggira le domande con grazia compita, Giuseppe Conte, che è già uno stile in questa nuova Italia, dove il ministro dell’Interno fa conferenze stampa a torso nudo e il ministro dello Sviluppo chiama “parassiti e raccomandati” i dipendenti della Rai. E allora mentre su Facebook, dove tutto va in onda in diretta, la base grillina non lo ascolta nemmeno ma insulta, attacca sui vaccini, dileggia l’opposizione e i giornali di cui pretende la chiusura, schiuma di livori e malumori, ecco che invece il professore contraddice lo spirito profondo del tempo, il dèmone dei social, e interpreta a modo suo la fase, un mondo in cui per lui non ci sono più Renzi né Berlusconi, che non vengono mai citati, ma soltanto “noi”, cioè loro, solo il Movimento e la Lega, il giallo e il blu, potenti e pacifici, il governo del cambiamento, “che non è retorica ma impegno quotidiano”.

 

Le gambe incrociate, le Oxford brogue ai piedi, le buone maniere, nell’Italia del vaffa e dell’estremismo che dà la scalata al cielo. Il professore non è Calogero Sedara, l’efficiente cafone del “Gattopardo”, cioè l’uomo nuovo come deve essere, il borghese che travolge l’antico potere, “egli procedeva nella vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti”. Liscia sempre il pelo per il verso giusto, questo presidente del Consiglio. Poggia l’orecchio a fil di terreno, ed è capace di parlare di qualsiasi cosa, pur dicendo in realtà pochissimo, mai uno spigolo, un’idea divorante, un annuncio, un pensiero senza scriminatura. A un certo punto, mentre offre un piccolo rinfresco, porgendo un secondo goliardico bicchiere di vino a quelli più indisciplinati con le domande – “oggi è il mio compleanno” – Conte sembra quasi il professore che s’intrattiene con gli studenti dopo la lezione, in un’atmosfera intima, da salotto o da caffè, questo grande caffè Italia dove lui racconta che ogni tanto “mi dimentico di essere il capo del governo. L’altro giorno ero sovrappensiero e sono uscito dal Palazzo a piedi, da solo. In pochi minuti sono stato circondato dalla gente. Mi hanno detto di non farlo mai più”. E certo capita ai professori durante l’anno scolastico di svelare un punto debole e di cedere alla vanità, esagerare per voglia di seduzione, “mi ha chiamato la mia vecchia insegnante di matematica, e mi ha detto: ‘Eri lo studente più bravo che io abbia mai avuto’”, ma è solo un attimo. Poi arriva Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario, l’architetto di retrovia della Lega, alto alto e spiritoso. “Lasciate stare il presidente, che deve lavorare”, ride, mentre arraffa pizzette, e ai cronisti getta un paio d’ossi – “abbiamo dato ai ministri i compiti per le vacanze”, “in Rai potremmo fare le nomine ma c’è un problema politico” – tutto quello che il professor Conte non fa e non dice, perché lui, come quei vecchi, abilissimi democristiani di un tempo sarebbe invece capace di non dire nulla parlando per ore.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.