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Che casino!

Giulia Pompili

Per Di Maio il gioco d’azzardo è il male assoluto, ma Shinzo Abe lo sta trasformando in un’occasione

Roma. “Mi spiace far arrabbiare qualche squadra di calcio ma non si possono fare soldi sul gioco d’azzardo che sta mandando sul lastrico alcune famiglie”, ha detto il vicepremier Luigi Di Maio su La7 qualche giorno fa, col piglio di chi avrebbe salvato l’Italia dalla dissolutezza morale dei giocatori d’azzardo complici delle grandi società del pallone, come un novello Francesco Sforza nella Milano rinascimentale.

 

Le norme che avrebbero dovuto contrastare il gioco d’azzardo in realtà sono contenute nel “decreto dignità”, testo definito la “Waterloo del precariato” da Di Maio, approvato dal Consiglio dei ministri la scorsa settimana ma bloccato in qualche buco nero burocratico non ancora identificato. Insomma, più che Waterloo del precariato per ora sembra la Austerlitz del Jobs Act.

 

Comunque, mentre aspettiamo l’entrata in vigore del primo atto concreto del governo del cambiamento, a quarantadue giorni dal giuramento, il testo non solo rischia di essere snaturato durante il passaggio parlamentare, ma finora non ha cambiato nulla del business del gioco d’azzardo: la norma che si vorrebbe introdurre, infatti, vieta alle società di gioco d’azzardo di firmare nuovi accordi pubblicitari dal giorno dell’entrata in vigore, ma non tocca i contratti preesistenti o quelli firmati tra una dichiarazione e l’altra di Di Maio. A questo proposito, mentre il ministero della Salute fornisce altri milioni di euro alle singole regioni per finanziare i programmi per il contrasto del gioco d’azzardo patologico (una patologia, appunto, e come tale trattata, curata), dall’altra parte del mondo c’è chi scommette (toh!) su un piano ragionato e controllato di investimenti.

 

A Tokyo il governo di Shinzo Abe da mesi si batte per far approvare in via definitiva dal Parlamento la legge sui casinò. In Giappone il gioco d’azzardo è formalmente illegale, sono legali e diffusissime però le sale pachinko, un gioco simile a quello delle slot machine, ma più esotico e non considerato d’azzardo, visto che vinci palline di ferro e non direttamente soldi. Si stimano cinque milioni di persone dipendenti dalle sale pachinko, che sono automatizzate e incontrollate. D’altra parte per le scommesse sportive ormai basta internet. E insomma il gioco d’azzardo esiste, recintarlo all’interno di regole nelle quali il governo ci guadagna sembra tutt’altro che ipocrita.

 

Il progetto di Abe è quello di inaugurare tre resort in tre diverse città del Giappone, per un giro d’affari complessivo da 15,9 miliardi di dollari all’anno, che ha già aperto una corsa dei più grandi operatori di casinò del mondo, dal Las Vegas Sands alla Galaxy Entertainment Group. Il Giappone ha imparato dalle zone di divertimento cinesi, tipo Macao, ma sarà più rigido sugli introiti: il 30 per cento dei guadagni degli operatori sarà consegnato nelle mani dei governi regionali, che li investiranno anche per contrastare le dipendenze di cui soffrono quelli che si giocano lo stipendio alle slot machine, luoghi fuori controllo e spesso anche fuori legge. E infatti nei tre casinò previsti si potrà entrare per massimo tre volte al mese, e all’interno del resort lo spazio dedicato ai casinò potrà coprire soltanto il 3 per cento dell’intera struttura – un circolo virtuoso di guadagni dal punto di vista turistico ma anche occupazionale. Quelle di Luigi Di Maio e di Shinzo Abe sono visioni diverse dello stesso problema: una sola è un’opportunità.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.