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Un Campione d'Italia

Manuel Peruzzo

Dove un tempo c’era ricchezza oggi c’è default, decadenza e fallimento. Viaggio tra gli italiani che sognavano Montecarlo e hanno trovato solo le slot

Forse il declino è iniziato quando il vecchio casinò è stato demolito. Ne esiste uno più nuovo e più grande, costruito per far posto alle 778 slot machine. Lo hanno pensato negli anni Novanta, quando ancora la crisi era lontana, e inaugurato nel 2007, quando era troppo tardi per cambiare idea. Visto dal lago sembra un’enorme Esselunga destrutturata: volumi imponenti progettati dall’archistar Mario Botta. Per alcuni è un bellissimo edificio moderno, per (molti) altri un ecomostro. Il complesso piramidale, costato 120 milioni di euro, si sviluppa in tre grandi corpi: uno centrale che di fronte ricorda un diapason, più alto, e due ali laterali a gradoni per una superficie di 55.000 metri quadri che lo rendono il più grande d’Europa. Negli anni anche la clientela è cambiata e si è passati dagli imprenditori che arrivavano in taxi da Milano nel boom economico, a Emilio Fede e Mara Maionchi resident ai tavoli e alle slot, fino ai bus pieni di cinesi in infradito. Le slot hanno democratizzato il gioco d’azzardo e abbassato il livello estetico; secondo Federgioco, su 515 milioni di euro di incasso totale, 185 provengono dalle sole slot. Un tempo era considerato vizio esclusivo per chi aveva i soldi; ma ormai giocano anche gli operai e gli studenti, come per la droga.

 

Il casinò di Campione d'Italia

 

Negli anni anche la clientela è cambiata: dagli imprenditori che arrivavano in taxi da Milano nel boom economico ai bus di cinesi

Venerdì (27 luglio 2018 ndr) il casinò di Campione d’Italia ha fatto crack. Il tribunale di Como ha notificato il fallimento. I giudici hanno negato una ulteriore richiesta di temporeggiamento in favore della casa da gioco per presentare un piano di risanamento. In mancanza di dichiarazioni ufficiali, ci affidiamo alle informazioni che abbiamo. Secondo il Sole 24 Ore la società che gestisce il casinò è partecipata al cento per cento dal comune di Campione d’Italia e avrebbe dovuto garantire all’amministrazione pubblica un contributo di 700 mila euro ogni dieci giorni, che non viene versato da mesi, tanto che il credito ammonta a circa 30 milioni di franchi. Si parla anche di ulteriori debiti con la Banca popolare di Sondrio. Le conseguenze? Il consiglio comunale ha dichiarato il dissesto finanziario del Comune e non riesce a pagare i dipendenti (che si autodefiniscono “dipendenti a costo zero”); difficile anche trovare i soldi per pagare le pensioni ai circa quattrocento pensionati campionesi (che però hanno goduto per anni di pensioni d’oro e di cambio agevolato). I dipendenti del casinò avevano recentemente votato a favore della riduzione del costo di lavoro in alternativa alla minaccia di 156 licenziamenti. Sono finiti gli anni in cui persino il parcheggiatore guadagnava cinquemila franchi al mese. Mance escluse. Oggi quel mondo non c’è più. Il casinò è fallito: fallirà l’intera città?

 

Qualche giorno fa avevo contattato il responsabile marketing, che non si era sbilanciato e preferiva non parlare con i giornali: “Il casinò di Campione d’Italia attraversa turbolenze finanziarie con risvolti giudiziari che al momento pregiudicano il rilascio di interviste”. A chi si lamentava su TripAdvisor faceva rispondere così: “I grandi signori di un tempo spesso si sono mimetizzati o partecipano solo ad eventi dedicati”, forse si nascondono tra le piante (ce ne fossero), o tra la tappezzeria, forse sono al quarto piano (zona off limits dedicata ai super giocatori che arrivano in Jaguar). Una cliente scrive: “Una volta ti offrivano un flute, c’era un po’ di atmosfera... adesso tristezza, macchinetta dell’acqua stile mensa... sembra un po’ una poverata”. Tutti parlano di un prima e di un dopo. In tanti considerano i cinesi un indicatore di povertà (anche se i soldi li spendono), e per un periodo s’è pensato di aprire un casinò solo per loro; c’era pure un nome, Dragon Casinò, in Villa Mimosa, ma non se ne è fatto nulla perché mancano i soldi. La domanda quindi è una sola: quand’è che il casinò di Campione ha smesso d’essere un luogo chic e glamour ed è iniziato il decadimento che lo ha portato al fallimento?

 

 

Vado a controllare. E’ un mercoledì sera e trovo facilmente parcheggio, ma la fortuna non c’entra. Chiedo alla cassiera se c’è gente durante la settimana e mi risponde “è difficile da dire, è un casinò così grande”. Significa no. “Prima volta?”, mento, fingendo di non ricordarmi di quando sono stato con i miei genitori per i diciott’anni, né di mia madre che mi diceva di spostarmi che le portavo sfortuna, né di mio padre che faceva la cronaca delle sue “quasi-vincite”, e accampava mille teorie assurde sulle strategie da adottare: come tutti, perdeva quasi sempre. C’ero stato anche con mia sorella, quand’eravamo bambini e non potevamo entrare, e rimanevamo in macchina ad aspettare che finissero di sputtanarsi gli stipendi. “Il computer dice che lei è già stato qui nel 2005”, mi smaschera la cassiera. Hanno ancora i miei dati, schedano tutti i giocatori. Non mi merito il gettone omaggio riservato ai novellini.

 

La prima cosa che ho googlato è stata come vestirmi. Alla domanda “è obbligatorio indossare giacca e cravatta per entrare?” la prima risposta che trovo è “no, ma vestiti comunque decentemente e non in tuta”, la seconda è “no, si può entrare anche in tuta”, e la terza “l’importante è non andare in pantaloncini”. Così nel dubbio mi sono messo in Saint Laurent. Quando entro, l’impressione è di un supermercato, per le luci a faretto; poi penso a quegli scannatoi newyorchesi, i videostore con i barboni che s’addormentano nelle cabine, per l’odore dell’aria climatizzata (simile a quella degli aerei e dei luoghi chiusi); poi che se in Svizzera esistessero i giovani proporrei la riqualificazione nella più grande discoteca d’Europa (non ci sono orologi o finestre, così non ti accorgi che il tempo passa, e “fai serata”, cioè entri alle cinque del pomeriggio ed esci alle cinque del mattino). Vibrazioni e suoni sono quelli di una stanza in cui tutti giocano a Call of Duty. Il primo piano è pieno di slot machine occupate principalmente da vecchie ipnotizzate o da coppie che litigano o che si danno la mano. C’è la slot con l’Ellen Degeneres Show, quella con Orange Is The New Black, quella con Game of Thrones, quelle con gli animaletti, le ruote della fortuna, le principesse. Occupano anche il secondo piano. Al terzo ci sono i giochi francesi e americani: quasi solo uomini ai dadi e ai tornei di poker. Proprio qui vedo uno in bermuda, ha persino il borsello.

 

La prima cosa che ho googlato è stata come vestirmi. “Obbligatorie giacca e cravatta per entrare?”. “No, si può anche in tuta”

Di qui la moda non è mai passata. Inizio a fare il ficcanaso e chiedo a un dipendente “lei lavora qui da tanto?”, ma mi scopre subito e inizia a metter su un’aria da Corleone, “le chiamo un ispettore”, uno di quelli più anziani che controllano i giochi ai tavoli. Mi dileguo. Un giovane dipendente il cui padre e nonno hanno lavorato per il casinò si lascia un po’ andare e mi dice che lui ci tiene a essere in ordine, che gli piacciono i racconti del suo vecchio sui bei tempi in cui si davano le giacche a chi non le aveva pur di salvare il decoro, ora “si vede di tutto, anche gente che litiga pesantemente di fronte a te”. Si ostina a chiamarmi monsieur anche se ha capito che sono uno scappato di casa. Tre generazioni di uomini e la sua è la più sfigata: in linea col resto dei giovani italiani. Vedo un uomo che se non credessi alla biologia direi che è incinta, con una pancia così rotonda e gonfia che gli solleva la maglietta elasticizzata con la scritta “I’m a boss”; un’anziana con un abito in pizzo bianco che pare una cubista, circondata da badanti slave; uomini ciechi (e con mogli distratte) coi pantaloni rossi e camicie a quadri; quelli più eleganti indossano abiti ereditati dal fratello maggiore o di quando erano una taglia in più: giacche beige anni Ottanta senza forme, revers elefantiaci, cravatte fino all’ombelico. Una che sembra Dolly Parton senza denti infila nervosamente banconote da cento franchi nella slot. Il marito le dice di lasciar perdere e tornare a casa, lei lo ignora. C’è un’asiatica serafica che macina banconote da duecento franchi nella roulette elettronica (il giocatore ascetico-trascendentale). C’è la moglie di uno che continua a salire e scendere le scale, chiedergli soldi, sudare e smascellare (il giocatore che rincorre le perdite). Ci sono le coppie che giocano insieme: lei gli dice “vai!” e lui titilla il pulsante (ménage à trois post-umani). Ci sono i giovani con gli omaggi che hanno ricevuto in qualche centro commerciale e che soffiano sui dadi prima di lanciarli perché l’hanno visto in qualche film (giocatori spiantati). Ci sono quelli che ti fissano giocare e aspettano ti alzi per rubarti il posto (giocatori avvoltoi). Ci sono gli uomini col borsello pieno di 50 euro arrotolati, ci sono i freak che si addormentano sui divanetti e i tabagisti nella sala fumatori, quelli che si fanno un selfie e poi entrano.

 

Dolly Parton mi sorride. Le chiedo se ha vinto qualcosa e lei mi dice “no, ma va, ma io vengo qui per mio marito, è lui il giocatore, mica io. Era depresso e il medico gli ha detto di svagarsi e da allora veniamo qui”. Ma certo. Avete presente quell’esperimento neurobiologico sul piacere condotto negli anni Cinquanta? Due scienziati canadesi applicano elettrodi ai topi e li infilano in una gabbia con una leva che gli consente di generare uno stimolo. I ratti iniziano ad azionare la leva per oltre 7.000 volte al giorno: si dimenticano di mangiare e di bere. I maschi ignorano le femmine in calore e superano zone dolorose pur di raggiungere la leva; le femmine abbandonano i cuccioli senza allattarli. Praticamente slot machine per topi drogati. Vi ricordo che il ratto ha un’anatomia del circuito del piacere molto simile alla nostra: quindi mi siedo e infilo soldi nella Fort Knox.

La crisi del settore però non è colpa dei vestiti sciatti o dell’architettura brutalista. E’ colpa della liberalizzazione delle slot

Tutto quel che devo fare è pigiare un tasto ripetutamente, al contrario del Black Jack o dei dadi qui non serve alcuna competenza: tanto perdi tutto. Lo schermo colorato ti fa dimenticare che stai spendendo dei soldi (i soldi devono sempre essere sostituiti da qualcosa: fiches o disegnini): appaiono continuamente principesse, ghiaccioli, diamanti e ogni tipo di stronzata possibile che ti distrae. Perdo, ma non mi arrendo: devo recuperare. Infilo altri soldi, perdo ancora. Anche in questo caso si attiva il circuito del piacere dopaminergico, come scrive il professore di neuroscienze David J. Linden nella “Bussola del Piacere”. Lo hanno studiato anche sulle scimmie: è quello che anche in caso di situazione d’incertezza ci dà piacere. All’improvviso si mette tutto a suonare, escono dei ghiacciolini, ho vinto, me lo sentivo, sono fortunatissimo, sono il prescelto, sono una persona speciale, tutti verranno da me a complimentarsi, mi comprerò una casa, smetterò di lavorare, manderò a fare in culo tutti. Mi giro e chiedo, quanto ho vinto? e dei signori mi rispondono, quattro euro. In compenso ne ho spesi 200. “In un casinò la regola fondamentale è di farli continuare a giocare e di farli continuare a tornare. Più giocano e più perdono. Alla fine becchiamo tutto noi”, diceva Sam “Asso” Rothstein in “Casinò” di Scorsese. Ma qui hanno smesso di tornare.

 

Internet sostiene che il casinò di Campione sia nato nel 1917 come luogo di intrighi, potere e spionaggio dove i burocrati e gli agenti segreti si davano appuntamento infiltrandosi nella mondanità. Figuriamoci. Più credibile fosse attivo durante il fascismo (negli anni Trenta hanno aggiunto “d’Italia”: suonava più patriottico) e negli anni del boom era frequentato da gente coi danée che andava a passarci il tempo. Ci andava il cumenda della Ignis, sciur Giovanni Borghi, il re dei frigoriferi. La sua segretaria storica, Caterina Ossola, raggiunta al telefono racconta al Foglio con un filo di voce ottantatreenne che Borghi “non era un frequentatore giornaliero, capitava che ci andasse, giocava ai tavoli. In ufficio non ne parlava mai, lo considerava un vizio, una cosa negativa. Ma si sapeva… Sa, a Comerio (in provincia di Varese, ndr) non c’era nulla per svagarsi”. Era fortunato al gioco? “Direi di no”. Non era l’unico a tentare la fortuna. Negli anni d’oro si dice abbiano attraversato la frontiera Sofia Loren, Vittorio De Sica, si vocifera di Claudia Cardinale, Gino Bramieri e Ornella Vanoni. Persino i reali di Persia. Si giocava ai tavoli, alle roulette, a chemin de fer e baccarat. Si andava a cena coi colleghi, ci si vestiva bene, era il modo in cui l’aristocrazia, l’imprenditoria lombarda e la gente dello spettacolo si godevano ricchezze e vizi. Eleganti e il personale chiamato in francese, perché si nota meno il deboscio.

 

La crisi del settore però non è colpa dei vestiti sciatti o dell’architettura brutalista: è colpa del terremoto dell’Aquila. Il gioco nei casinò cala attorno al 2009 quando venne convertito il decreto legge n. 39 varato dopo il sisma che provocò 309 vittime. Una legge che dava la possibilità di installare le VLT (videolotteries) per concessione statale. In pratica: 1.200 sale slot disseminate per l’Italia. E poi c’è il gioco online che continua a crescere, meno soldi a disposizione per tutti, la concorrenza dei casinò svizzeri (ce ne sono tre in Ticino). Diminuiscono anche i giocatori. Lo scorso anno, i clienti del casinò di Campione d’Italia sono stati 672 mila circa rispetto agli oltre 711 mila dell’anno precedente. Però, solo nel primo trimestre del 2018 ha registrato quasi 21 milioni di euro di introiti. Nel 2017 ha raggiunto i 91.150.276,95 euro (di meno rispetto agli anni precedenti). Anche se in continuo calo di soldi ne fa parecchi. Quindi come mai Campione è fallito? I titoli sui giornali degli ultimi anni danno qualche idea: sprechi, contabilità spericolata, stipendi da favola a pioggia, rapine e truffe organizzate dai dipendenti con baffi e occhiali da Groucho Marx. L’amministrazione all’italiana sarebbe in grado di far fallire pure la Svizzera.

 

Torno di sabato sera, c’è più gente e c’è meno l’atmosfera da fine serata in discoteca dove tutti cercano soddisfazione in quel che potrebbe succedere ancora: e che non succede. Incrocio uno svizzero e gli chiedo perché è qui e non all’Admiral di Mendrisio, e mi fa: “Preferisco qui, poi là sono diffidato”. Oltre ai fissi che riconosco già come se fossimo in palestra, ci sono quelli occasionali che vogliono “passare un sabato sera diverso” – li riconosci perché chiacchierano anziché giocare, vengono coi soldi contati. Incrocio due ventenni al bar, indico la fetta di torta che stanno mangiando e chiedo, state festeggiando una vincita? “Se avessimo vinto festeggeremmo in altro modo in Svizzera, stai sicuro”. Parlano di mignotte. Uno dei due è un futuro probabile giocatore. “Ho vinto la prima volta”, dice, e l’amico sobrio lo corregge: “Sì ma poi hai perso tutte le altre…e mi chiedi soldi in prestito per recuperare: oh, mi ha preso per il suo bancomat”. Avete lasciato le mance almeno? “Ma quali mance, mi stavo per portare via pure il feltrino del tavolo. Anzi, la forchetta è d’argento?”. Arriva un terzo amico spiritato. Ha perso “Oh alzami un 50”, chiede una decina di volte all’amico dei due meno giocatore, quindi con più probabilità di avere soldi in tasca. “Devo tornare in pari, il pelato mi ha sbattuto fuori dall’ultimo tavolo”. Sta giocando a poker, e l’altro: “Ma lo sai che 50 euro sono 500 Goleador?”. “Dai fai il serio, alzami un 50”, insiste. In cinque minuti dimostra tre o quattro punti del capitolo del DSM sui Disturbi del gioco d’azzardo. L’altro amico che li ha trascinati lì dice: “Oh andiamo su a vedere un po’ di mani”. Ci ride su. Poi l’altro riesce a convincerli a mollare il colpo e tornare a casa. “Abbiamo perso abbastanza”. Questa volta ha vinto lui.

 

Internet sostiene che il casinò di Campione sia nato nel 1917 come luogo di intrighi e spionaggio dove si incontravano gli agenti segreti

Pagherete caro, pagherete tutto dicono i giudici. Un casinò col debito (pubblico) che non riesce a ripagare, che regge da solo l’economia di una città piena di pensionati; dove lavorano giovani pieni di speranze ma che sono nati nel momento sbagliato; dove sprechi e ruberie hanno indebolito una macchina potenzialmente perfetta per spillare soldi, e che se fosse amministrata dagli svizzeri finanzierebbe scuole, poste, strade migliori ma invece è simbolo dell’Italia della decrescita infelice. Dove un tempo c’era ricchezza oggi c’è default e decadenza, e fallimento. E non si può neppure urlare “prima gli italiani” perché non c’è nessun altro su cui scaricare la colpa. Quand’è che abbiamo smesso d’essere campioni?