La religione oppio del populismo

Maurizio Crippa

Un leader populista che in Italia agita il Vangelo e respinge i profughi e un leader che non giura sulla Bibbia ma li accoglie. Perché una fede impaurita è diventata nemica delle democrazie e della società aperta. Un’inchiesta

Il 10 ottobre 1943 il cardinale Clemens August Joseph Pius Emanuel Antonius von Galen, vescovo di Münster, si aggrappò all’unico muro del duomo e del suo palazzo episcopale rimasto in piedi dopo un furibondo bombardamento alleato, e riuscì a salvarsi. Il suo vicario era morto, morte le cinquantanove suore del convento. Negli Archivi vaticani è conservata una sua lettera del 4 novembre a Pio XII, durissima nel condannare quell’atto che esorbitava dalle necessità belliche. Dopo la guerra pronunciò una potente omelia contro gli eccessi degli Alleati. Il governatore militare americano, colonnello Jackson, lo convocò per protestare, ma il cardinale picchiò i pugni sul tavolo, non cedette di un millimetro. Von Galen, proprio lui che era stato uno dei rari oppositori a viso aperto del nazismo. Lui che nella sua prima lettera pastorale, 1934, aveva condannato senza riserve la “nuova nefasta dottrina totalitaria che pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge (…) ripudia la rivelazione, mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo (…). E’ un inganno religioso. A volte accade che questo nuovo paganesimo si nasconda perfino sotto nomi cristiani”. Lui che per primo aveva denunciato il programma di soppressione eugenetica dei bambini e dei disabili. Lui che il 3 agosto 1941 aveva pronunciato nel duomo stracolmo di fedeli una virulenta omelia sul Quinto comandamento che il ministero della Propaganda definì “l’attacco frontale più forte sferrato contro il nazismo in tutti gli anni della sua esistenza”. Lui che, per quanto Martin Bormann chiedesse pubblicamente di impiccarlo “all’istante”, nemmeno il Führer ebbe mai il coraggio di toccare. Tanta era la forza di verità, un filosofo direbbe katecontica, che emanava dalla sua testimonianza.

  

Il cristianesimo ha sempre saputo prendersi e difendere il proprio ruolo nello spazio pubblico, anche a rischio della vita 

Il beato cardinale Clemens von Galen ha poco a che fare con l’argomento di questo articolo. Se non come un’evocazione distopica, un’icona fuori dall’agenda storica utile per ricordare che il cristianesimo ha sempre saputo prendersi e difendere il proprio ruolo nello spazio pubblico, anche a rischio della propria vita. La cartolina riassuntiva (“saluti dall’occidente cristiano”) del nostro tempo è un’altra, e di immediata lettura. C’è il capo del partito nazional-populista italiano da poco insediatosi al ministero dell’Interno che ha fatto campagna elettorale sventolando il Rosario e che agita il Vangelo ma che era pronto ad abbandonare in mezzo al mare una nave con a bordo seicento disperati, tra cui oltre cento bambini, in nome della difesa dei confini cristiani della sua terra. E c’è il capo del governo spagnolo, Pedro Sánchez, il primo capo di governo in Spagna a rifiutarsi di giurare sulla Bibbia, che invece quei profughi accoglie nei suoi porti. Il senso di questa icona politica che fotografa alla perfezione un cambio di paradigma nel rapporto tra religione, democrazie e diritti, non è che si può essere buoni umanitari anche essendo atei – questo è uno stucchevole refrain volterriano, vecchio di secoli. Il senso è che la Bibbia, agitata in politica, è diventata per vaste maggioranze elettorali un simbolo divisivo, di paura, perfino un gancio cui appendere la propria disumanità. Il che forse è il destino di tutte le religioni del Libro, quando la lettera prende il sopravvento sullo spirito, che soffia dove vuole. Non mette conto qui parlare dell’islam, sappiamo già tutto, in India i problemi causati dal fondamentalismo indù sono noti e sottostimati a livello internazionale, persino la mutazione in chiave di radicalismo religioso del conflitto israelo-palestinese ha un’evidenza difficilmente negabile. Limitiamoci a quanto accade nel vasto emisfero trasversale in cui più incidente è la presenza della religione nata da Gesù di Nazareth. E’ in corso da molto tempo una guerra tra le società a vario livello secolarizzate dell’occidente e le componenti religiose che ad esse si oppongono, in modo speculare. Iniziare da Matteo Salvini sarebbe un po’ grossier. Come ha detto Alberto Melloni, in lui c’è qualcosa “che ricorda una famosa frase pronunciata da Mussolini alla ratifica dei Patti Lateranensi, quando disse: ‘Io sono cattolico e anticristiano’”. Il problema, purtroppo per Melloni, è che questo è esattamente il motivo per cui il leader della Lega piace così tanto all’elettorato che un tempo veniva definito cattolico. E che lo considera quasi un nuovo De Gasperi, l’uomo della ricostruzione.

 

La Bibbia, agitata in politica, per vaste maggioranze elettorali oggi è un simbolo divisivo, di paura

Ci sono icone molto più influenti e rappresentative di quanto la religione – all’interno di quella che si configura come una nuova teologia politica, per quanto arruffata – sia diventata un elemento chiave dell’ideologia populista, nel senso della società chiusa, anzi blindata. Un suo propellente psicotropo, l’oppio del populismo, parafrasando Marx. Il più famoso di tutti è Vladimir Putin, che ha stretto una alleanza di ferro con la chiesa ortodossa russa come non si vedeva dai tempi degli zar. Già nel 2013, in un incontro con giornalisti e politologi occidentali che fece scalpore, Putin spiegava: “Vediamo come molti paesi euroatlantici di fatto hanno scelto di ripudiare le proprie radici, inclusi i valori cristiani, che costituiscono il fondamento della civiltà occidentale. I principi morali e ogni tradizione identitaria, nazionale, culturale, religiosa, perfino sessuale, vengono rifiutati. Viene invece promulgata una politica che equipara una famiglia a prole numerosa e le unioni omosessuali, la fede in Dio e la fede in satana. Gli eccessi del politicamente corretto portano addirittura a far parlare sul serio della registrazione di partiti che propagandano la pedofilia (…). Si cerca di imporre aggressivamente questo modello al mondo intero. Sono convinto che questa strada porta dritta al degrado e alla primitivizzazione, a una profonda crisi demografica e morale”. E’ il programma politico culturale di tutti i movimenti religiosi che vedono nel populismo il loro miglior alleato.

  

Trump non è un born again christian come George W. Bush, ma ha incassato i voti della destra religiosa e la benedizione della maggioranza dell’episcopato cattolico degli Stati Uniti, in polemica con l’agenda pro immigrati. Un voto largamente dettato dal rifiuto del laicismo di Hillary Clinton

Nell’occasione Putin non parlava del complotto delle élite, altro ingrediente essenziale. Ma per quello c’è un altro leader della società chiusa, anzi un profeta del filo spinato: Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria, tendenzialmente antisemita, che del proprio sospetto contro il cosmopolitismo ha dato prova negli attacchi alla Open Society Foundations di George Soros. Nel novembre 2017, in un discorso per i 500 anni della Riforma, Orbán aveva offerto un saggio del suo pensiero: “Dopo anni di governi internazionalisti e anticristiani l’Ungheria ora ha bisogno di un governo dedito ai valori cristiani. Il fatto che oggi abbiamo un governo che promuove la fede cristiana non è un caso, bensì una manifestazione della misericordia divina. Il mio governo ha il dovere di tutelare il modello di vita cristiano, la dignità umana, la famiglia, la nazione e la comunità di fede. Abbiamo difeso il nostro paese dalla ruggine dell’immigrazione. Il nostro obiettivo è costruire una patria cristiana. Pensiamo che il cristianesimo sia l’ultima speranza per l’Europa”. Il Pew Institute ha notato che mentre nelle società secolarizzate domina un “credere senza appartenere”, nell’Europa orientale e in Russia è ormai dominante un “appartenere senza credere”. Visto dal lato del potere politico: un uso strumentale della religione.

  

Dall’altra parte dell’oceano c’è Donald Trump, che non è esattamente un born again christian come George W. Bush, ma ha incassato i voti della destra religiosa e la benedizione della maggioranza dell’episcopato cattolico degli Stati Uniti, in polemica con l’agenda pro immigrati e non particolarmente ossessionata dal sesso di Papa Francesco. Un voto largamente dettato dal rifiuto di Hillary Clinton e del suo laicismo programmatico, dopo gli otto anni di Obama. E’ l’esito, logico, di un trentennio in cui il Partito democratico ha tradito i valori della sua constituency cristiana in nome di un secolarismo divenuto addirittura minaccioso verso la libertà religiosa. Come si vede, i motivi per opporsi a questa visione del mondo e alla progressiva estromissione della religione dallo spazio pubblico non mancano.

  

La Polonia che recita il rosario sui confini contro la secolarizzazione dell’occidente è la stessa Polonia ancora segnata in profondità dall’antisemitismo riemerso con la legge sull’Olocausto. Ma è anche la stessa Polonia da cui quarant’anni fa venne Giovanni Paolo II con la sua sfida senza confini

Il problema è, nel nome della propria fede, come lo si fa. Se basti sgranare rosari di filo spinato ai confini, interiorizzando le teorie sostituzioniste sull’islam, agitando le teorie del complotto gender e quelle del nemico interno, cioè l’occidente colpevole di aver sbracato sulle libertà civili e sessuali. Il tutto incastonato nella nostalgia di una cristianità edenica di cui, soprattutto a certe latitudini, scarseggiano le prove. Ad esempio sul ruolo della “famiglia tradizionale” nelle società premoderne. Per tornare in Europa, la Polonia che recita il rosario sui confini contro la secolarizzazione dell’occidente è la stessa Polonia ancora segnata in profondità dall’antisemitismo riemerso con la legge sull’Olocausto. Ma è anche la stessa Polonia da cui quarant’anni fa venne Giovanni Paolo II con la sua sfida senza confini, “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo”, con il suo sogno di un’Europa “dall’Atlantico agli Urali”. Oggi la Polonia è uno dei centri di irradiazione di un pensiero antieuropeo. Quando tra qualche mese saremo inondati dalle rievocazioni e dalle epopee del pontificato di Karol Wojtyla, riflettere sul sostanziale fallimento di lungo periodo di quella sua visione del cristianesimo protagonista nello spazio pubblico occidentale sarebbe forse utile.

  

E’ il momento di guardare all’Italia. Non perché sia particolarmente strategica, ma perché è paradigmatica del cambiamento profondo e di lungo periodo di cui parliamo. L’elemento religioso, tradotto in politica, ha smesso di essere propulsivo – uno dei pilastri su cui si è edificata la imperfetta, ma positiva, convivenza politica italiana in un quadro di democrazia laica e rappresentativa – per diventarne un elemento critico, un nemico. L’esordio mediatico del ministro della Famiglia e disabilità, il leghista Lorenzo Fontana, al di là dei buuu di rito (se interviene Tiziano Ferro, la cosa smette di essere seria) è stato al tempo stesso politicamente disastroso e illuminante. Da ministro, dovrebbe sapere che le “famiglie che non esistono” sono tutelate de facto da una legge dello stato sulle unioni civili. Per quanto sprovveduto, Fontana sa benissimo che affermare “sono cattolico, non lo nascondo. Ed è per questo che credo e dico anche che la famiglia sia quella naturale” porta il consenso del proprio bacino d’utenza. Il populismo è in campagna elettorale permanente. E’ il caso di Simone Pillon, un astro nascente del settore. Bresciano, avvocato, organizzatore di Family day, si è distinto recentemente per la difesa della campagna di affissioni dei manifesti anti aborto a Roma dall’associazione PRO VITA. In punto di diritto ha ragione. Sul lato pratico, queste campagne hanno mai salvato un bambino? Pillon è senatore del partito che respinge le navi dei migranti, e avrebbe volentieri abbandonato al mare anche i 120 minori non accompagnati a bordo. Si rende conto della contraddizione? Probabilmente no. Il populismo religioso è selettivo.

  

E’ successo qualcosa, anche in Italia, e il voto del 4 marzo lo ha certificato. L’eccezionalismo, l’idea illusoria che in Italia la chiesa tuttora detti le agende e guidi l’elettorato all’interno di un quadro politico condiviso, è evaporato. Al Nord la maggioranza degli elettori che vanno a messa ha votato Lega, al Sud Cinque stelle. Nessuno ha dato ascolto ai (pur timidi o afasici) appelli dei vescovi per il voto “solidale” (qualsiasi cosa si intenda) né agli appelli per una presenza organizzata e ispirata alla dottrina sociale cattolica, persino sui temi bio-sensibili. Anche l’appello di qualche giorno fa del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei – che pure commemorando De Gasperi il 18 aprile scorso aveva invitato a non “agitare i simboli cristiani come amuleti religiosi” – affinché i cattolici tornino a impegnarsi in politica appare fuori tempo massimo, senza concreta prospettiva. La realtà è che il partitino che si è presentato alle elezioni su una piattaforma per quanto vaga di presenza cattolica e inalberando un grottesco restyling dello scudo crociato non ha passato il quorum. I cattolici italiani votano partiti populisti con piattaforme opposte alla dottrina sociale. Nel paese che fu di don Sturzo (che diceva: “Lo stato laico sviluppò un notevole elemento etico impregnato di valori cristiani… fu errore quello di molti il non riconoscerlo, per difendere quella posizione storica alla quale era allora legata la chiesa”), che fu di De Gasperi e di Aldo Moro – che nel 1946 scriveva al presidente dell’Azione cattolica una celebre lettera, “ma questa Costituzione, faticosamente negoziata tra dieci milioni di marxisti con molte appendici moderate, massoniche ed anticlericali e otto milioni di democristiani non può riprodurre completamente i nostri punti di vista” – si è persa la traccia del pensiero politico che per circa un secolo ha sorretto la mediazione verso una società aperta, l’inclusione delle masse popolari nella democrazia, l’equilibrio di una convivenza dentro società destinate ad essere sempre più secolarizzate.

  

Il Novecento è stato il secolo dell’incontro tra chiese e democrazia e del superamento di un antagonismo con la modernità che sembrava inconciliabile (la bibliografia è infinita, rimandiamo a quella). In tutto il mondo, i cristiani hanno investito sull’ottimismo di una democrazia “valoriale” intesa come evoluzione secolarizzata dei contenuti sociali e antropologici tradizionali. Preso atto di alcune sconfitte di lunga durata, questa linea di sviluppo è stata omogenea: dagli Stati Uniti che hanno visto la progressiva inclusione dei cattolici nella vita politica, all’idea di Europa unita tenuta a battesimo, tra gli altri, da tre cattolici come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Tutto sbagliato? E’ argomento per un altro articolo. Qui interessa segnalare che quel tipo di democrazia è stata soppiantata da un’altra, relativistica e individualista. E la presa d’atto della completa e irreversibile secolarizzazione dell’occidente, che dovrebbe essere la base di ogni riflessione sul futuro, ha generato invece l’idea di una militanza identitaria e polemica. Una vasta area del mondo cristiano è tornata a considerare la democrazia come un avversario.

  

Il Bannon-pensiero ha tre nemici. Il primo è il capitalismo che “si è staccato dai fondamenti morali e spirituali della cristianità, dalla fede ebraico-cristiana”; il secondo è “l’immensa secolarizzazione dell’occidente”; il terzo è l’islam. La reazione populista non fa i conti con i parametri della modernità

C’è un’altra icona che tutto questo sintetizza alla perfezione. Steve Bannon, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo. E’ il supereroe globale del populismo religioso. Un cattivo della Marvel con Dio al posto del martello di Thor. Solo i matti possono credere che sia il regista di un complotto per la grande alleanza tra le chiese e i populisti. Ma col suo piglio arruffato e il suo look anti establishment, il suo linguaggio carismatico, le sue analisi grossolane ma capaci di imporsi nel marketing dei social media, Bannon è l’incarnazione perfetta di un mondo. Da qualche tempo, conclusa la missione per conto di Dio con Trump, si aggira come uno spettro in Europa per catalizzare come un magnete le forze della “rivoluzione anti élite”, quella che il Financial Times ha definito la “coalizione dei barbari moderni”. Un paio di settimane fa ne ha scritto un resoconto per il settimanale britannico Spectator. Ha raccontato di avere incontrato, nel suo quartier generale improvvisato a Roma (c’è un luogo più simbolico, per far scoppiare una rivoluzione religiosa?) rappresentanti di Alternative für Deutschland, Lega e Cinque stelle, Fratelli d’Italia, Partito della Famiglia: “It’s hard not to feel like we’re on the right side of history”. Tutti goodfellas, anche se il preferito di Bannon è Orbán, che ha stravinto le elezioni con la sua idea di “christian democracy”.

  

Ad ogni modo, i matti ci sono soprattutto nella chiesa cattolica. Qualche anno fa Steve Bannon era stato accolto a braccia aperte in Vaticano, un incontro non ufficiale, in margine a un convegno organizzato dal Dignitatis Humanae Institute, think-tank fondato nel 2008 che si è fatto notare qualche mese fa in Italia perché ha ottenuto dal Mibact la gestione del monastero di Trisulti, in provincia di Frosinone, per farne una sorta di scuola quadri delle culture war prolife. Nell’incontro in Vaticano, benedicente il cardinale Burke, Bannon aveva riassunto le sue idee. Partendo da una mitizzazione di una grossolanità imbarazzante, secondo cui alla vigilia dell’attentato di Sarajevo, 1914, “il mondo era completamente in pace”, e “l’Alta chiesa di Inghilterra, la chiesa cattolica e la fede cristiana erano dominanti in un’Europa di forti convinzioni cristiane”. Un paradiso, al confronto con l’attuale “crisi della nostra chiesa, della nostra fede, dell’occidente e del capitalismo”. Per Bannon siamo solo “all’inizio di un conflitto sanguinoso e terribilmente brutale”, e “se noi, la gente che è in questa sala, i credenti, non ci uniamo e non formiamo quello che mi sembra sia un aspetto della chiesa militante”, sarà il disastro. Il Bannon-pensiero ha tre nemici. Il primo è il capitalismo che “si è staccato dai fondamenti morali e spirituali della cristianità, dalla fede ebraico-cristiana”. Il secondo è “l’immensa secolarizzazione dell’occidente”. Il terzo è l’islam. Alleati? “Sul fronte dei conservatori sociali noi siamo la voce del movimento antiabortista. La voce del movimento a favore del matrimonio tradizionale e state certi che stiamo vincendo una vittoria dopo l’altra”. Se non capite il punto d’innesto fra la crisi morale del capitalismo e la crisi del matrimonio tradizionale, non siete i soli. Ma molti elettori, e una parte crescente degli intellettuali e della gerarchia cattolica lo hanno capito benissimo.

  

Il pensiero di Bannon è un pensiero della crisi, un pensiero sulla difensiva. Anzi propriamente reazionario: una contraerea che risponde agli attacchi nemici. Sono gli stessi temi che si trovano elencati in qualsiasi discorso pubblico di uno spettro di posizioni che va dall’evangelismo radicale al tradizionalismo cattolico ai partiti populisti. Più ancora dell’aborto – una questioncella terribilmente più seria – tengono banco l’ideologia gender, il matrimonio gay, il sostegno alla famiglia tradizionale (in una curiosa confusione con la famiglia cristiana, ispirata a quella di Nazareth) la libertà di educazione, l’ossessione per la questione demografica (curiosa anche questa: quale rapporto ci sia tra la difesa dei valori cristiani e la demografia, se non in chiave di complotto sostituzionista, non lo ha ancora chiarito nessuno). C’è una consonanza tra questa agenda e le correnti storiche del pensiero antimoderno cattolico – basta sfogliare l’abbondante pubblicistica – di cui il populismo appare in certi casi una metastasi. Insieme, hanno guadagnato posizioni. E’ notevole come in Italia voci di riferimento del tradizionalismo cattolico e i mezzi di informazione d’area si siano schierati ventre a terra in difesa del nuovo governo, arrivando a denunciare, i più ardimentosi, presunte manovre del Vaticano bergogliano per frenare il trionfo giallo-verde.

  

Sarebbe assurdo sostenere che non vi siano anche motivi per sentirsi “sotto assedio”, come direbbe Bannon. Ma la reazione populista non fa i conti con i parametri della modernità e le sue regole di ingaggio. Un esempio. La scorsa settimana Milano ha ospitato un incontro, una presentazione delle attività, della Alliance Defending Freedom, un’organizzazione di avvocati e giuristi, evangelici e cattolici, nata negli Usa e che svolge in molti paesi e presso molti governi (compresa la Corte europea dei diritti dell’uomo) un lavoro di assistenza legale in casi singoli in cui è discriminata la libertà in base a pregiudizi antireligiosi, di consulenza legale e lobbying legislativo nelle sedi giuridiche. Esattamente come fanno, con più visibilità, molte organizzazioni di segno opposto. I bersagli sono esattamente gli stessi del conservatorismo populista, lo strumento è interessante. Adf prende atto – non è l’unica organizzazione a farlo, ovviamente – di un quadro storico in cui la giuridicizzazione delle libertà individuali e del rapporto tra fedi e leggi è una sfida complessa. E cerca di agire su questo livello, senza rifiutarlo. Un metodo che, in controluce, rivela anche la storica diffidenza anglosassone nei confronti della via “politica” (in Europa la strada novecentesca sono stati i “partiti di ispirazione cristiana”). Ma è un metodo diverso da quello che userebbero Putin o Salvini, per dire.

  

Sono gli stessi temi di uno spettro di posizioni che va dall’evangelismo radicale al tradizionalismo cattolico ai partiti populisti. Più ancora dell’aborto, tengono banco l’ideologia gender, il matrimonio gay, il sostegno alla famiglia tradizionale, la libertà di educazione, l’ossessione per la questione demografica

Dietro tutto questo c’è un cambio di paradigma di lungo periodo, che supera la sola questione del populismo religioso. Di recente questo giornale ha pubblicato eccellenti contributi di Ubaldo Casotto dedicati al pensiero “politico” di Benedetto XVI e alla sua attualità, i grandi discorsi di Ratzinger sul rapporto tra fede, democrazia, leggi, ruolo del cristianesimo nello spazio pubblico. Che siano uno dei massimi punti di approdo filosofico e teologico occidentale su queste materie, non c’è dubbio. Ma è drammaticamente percepibile anche un senso di fuori agenda, oggi, rispetto allo stato delle cose. Tanto per la scarsa o inesistente riflessione delle gerarchie e del ceto politico cattolico, tanto per il disinteresse di una politica laica che ha spinto molto più in là il confine di separazione. Viene quasi malinconia a pensare che una delle menti più illuminate dell’ultimo secolo abbia sprecato tanto del suo tempo a dialogare con intellettuali persino di secondo rango e con politici sordi (tienimi da conto Macron, ma si vedrà). Politici, in molti casi, per i quali il massimo del contributo che la fede può portare alla società è tornato a essere quello indicato da Toqueville, quando affermava che la religione dovesse funzionare come un contrappeso della democrazia: “La religione, capace di ricondurre chi abiti una democrazia dall’ossessione per il benessere materiale all’attenzione per le cose dello spirito”. Dall’altra parte, unica alternativa apparente e funzionale al disegno populista, è il radicalismo religioso che si pone fuori dal tradizionale confronto democratico e punta ad abbatterne le regole. Decenni fa Augusto Del Noce, non certo un “progressista” ostile alla difesa dei valori cristiani, mettendo in guardia dall’illusione che possano esser risuscitati artificialmente, per via politica: “Se è verissimo che non si fa politica senza senso dell’autorità e del bene comune, e della patria – scriveva – è anche vero che non è nella possibilità del politico (che riceve la realtà effettuale come materia su cui agire) farli rinascere nel loro luogo, cioè nelle coscienze. Chi pensa, ad esempio, a una restaurazione per via politica della religione, della patria, della famiglia è destinato allo scacco… Quando un valore è visto soltanto, o anche almeno soltanto inizialmente, nella sua funzione strumentale, sia pure in quella più alta di salvezza di una civiltà, perde di conseguenza il carattere di autorità”.

  

Ma questo non è un articolo sul cristianesimo, su cosa è o dovrebbe fare e il suo futuro. E’ soltanto l’apertura di una domanda che molti cristiani per primi evitano di farsi: dove porta una religione intesa come tribù assediata e identitaria? (Di solito porta alla guerra, ma è solo un’ipotesi di lavoro). Nel 1974 in Italia un magnifico film di Werner Herzog fu presentato con un titolo infedele, L’Enigma di Kaspar Hauser, perché i distributori ritenevano che quello originale, Jeder für sich und Gott gegen alle, non fosse comprensibile al pubblico. Oggi, lo capirebbero tutti al volo: “Ognuno per sé e Dio contro tutti”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"