La Collina delle croci, in Lituania, è un’altura sulla quale sono state piantate dai pellegrini oltre quattrocentomila croci (Foto tratta da Wikipedia)

Papa Francesco e la cortina di fede

Matteo Matzuzzi

Il Pontefice nelle tre repubbliche baltiche dove convivono la memoria dei martiri, la russofobia e l’eterna voglia di libertà

Le macerie della Cortina di ferro, almeno idealmente, erano ancora lì, a dividere l’oriente dall’occidente, il mondo libero dalle nebbie del comunismo che lentamente si diradavano. Venticinque anni fa Giovanni Paolo II, il Papa polacco che diede un bel colpo al Muro di Berlino, attraversava quel confine ideale eretto nel cuore dell’Europa. Il vecchio nemico sovietico non c’era più, gigante dai piedi d’argilla che s’era squagliato dopo lunga agonia. Erano gli anni della libertà, presunta o tale, la Guerra fredda era finita e addirittura s’azzardò la fine della storia. Karol Wojtyla metteva piede nei tre piccoli stati baltici, la cui libertà tante volte era stata calpestata dalla storia. Un po’ come la sua Polonia, destinata per secoli a essere terra di conquista. Era l’apoteosi annunciata, le statue di Lenin venivano abbattute, le cattedrali trasformate in museo dal comunismo tornavano a essere consacrate. Ma c’era anche voglia di rivalsa, perfino di vendetta. L’orgoglio nazionalista si mischiava alla volontà di professare e di esibire, finalmente liberi, la propria fede. Giovanni Paolo II, però, puntò tutto sulla riconciliazione, esortando – e chissà, deludendo – le folle che accorrevano per lui a lasciare da parte appunto ogni “tentazione di vendetta che sempre conduce negli sterili labirinti dell’odio”. Wojtyla, che di vita sotto il comunismo se ne intendeva, usò l’espressione “né vincitori né vinti”. A questi ultimi, disse nella cattedrale di San Stanislao a Vilnius, “è urgente ricordare che non basta adeguarsi alle mutate situazioni sociali: occorre piuttosto la conversione sincera e, se necessario, l’espiazione”. Ai vincitori, invece, “va rinnovata l’esortazione al perdono, perché si affermi la pace autentica che deriva dalla sequela del Vangelo della misericordia e della carità”.

 

Venticinque anni fa lo storico viaggio di Giovanni Paolo II e l’invito a lasciare perdere ogni “tentazione di vendetta”

La paura che il “nemico” russo torni ad attraversare il confine; lo sguardo ormai orientato a occidente. I valori da difendere

C’erano ferite profonde da sanare, fili spezzati da riannodare, storie di martirio da riscoprire perché rimaste troppo a lungo sepolte dalla coltre dell’ateismo di stato. “Era commosso Karol Wojtyla quando si chinò a baciare il suolo lituano. Ci voleva venire fin dall’inizio del suo pontificato perché questa è terra di martiri, di eroica fedeltà al Vangelo e alla chiesa. Gli scendevano le lacrime sul volto quando si è inginocchiato nella cattedrale di Vilnius a pregare sulla tomba di san Casimiro e poi quando ha salito i gradini della Collina delle croci, il luogo dove si ricapitola la lunga tragedia del popolo lituano”, scriveva allora l’inviato di Famiglia Cristiana, Alberto Bobbio. Venticinque anni da quei giorni hanno dimostrato che Fukuyama si sbagliava, la storia non è finita. Solo se n’è aperta un’altra, quella dell’occidente in cui tutte le evidenze sono crollate, l’una dopo l’altra. L’epoca del secolarismo imperante, dell’onda laicista che quasi ricaccia nelle catacombe chi aveva fatto grande il continente. Un’età in cui sarebbe impossibile sentire nell’aula del Parlamento europeo un leader parlare di “Europa delle cattedrali”, come fece Robert Schuman.

 

Venticinque anni dopo quella storica visita, un altro Papa mette piede nelle repubbliche baltiche. Francesco passerà alla storia anche per essere il Pontefice delle periferie, del mondo reale visto come un poliedro, in cui ogni faccia è diversa l’una dall’altra. E nel suo peregrinare tocca un’altra periferia, geografica sì ma anche esistenziale. Non sono le strade in terra battuta di Bangui o le alture boliviane dove arringare le folle sull’imperativo morale di vedere garantiti tierra, techo y trabajo, terra, tetto e lavoro. E’ il modernissimo confine orientale dell’Europa, con le bandiere blu a dodici stelle ben issate sui pennoni, con l’euro nel borsellino, con un indice di sviluppo buono ma con un’emigrazione che non è esagerato definire di massa: in Lettonia, a partire dall’indipendenza, la popolazione è diminuita del 22,5 per cento. La gente se ne va o perché di etnia russa o per motivi di lavoro. La natalità, anche qui, è in calo. In Lituania l’emorragia è stata ancora più forte: se ne sono andate settecentomila persone dal 1990 a oggi e tra il 2005 e il 2010 il paese ha registrato il più alto tasso di emigrazione nell’Ue (2,3 per cento).

 

Sono terre di periferia religiosa, dove la fede è sempre più un qualcosa di sconosciuto e misterioso. Non tutto è uniforme, ovviamente: la Lituania non è l’Estonia, così come la Lettonia presenta caratteristiche proprie diverse dai due confinanti. Se Vilnius è l’estremo limite cattolico europeo, con l’ottanta per cento della sua popolazione che si professa cattolico, l’Estonia è il paese più ateo della Ue – alcuni studi la collocano al terzo posto nella speciale classifica dei paesi più atei al mondo, dietro alla Cina e al Giappone –, con il 76 per cento dei suoi abitanti che dichiara di non appartenere ad alcun credo. I cattolici sono più o meno seimila. In mezzo c’è la Lettonia, con un terzo della popolazione che è russo e il 55 per cento dei suoi residenti che si dichiara cristiano. Ad accomunare i tre paesi c’è la storia recente, quella del Novecento, un secolo che qui proprio breve – per usare parole proprie di Eric Hobsbawm – non lo è stato: prima l’inglobamento nell’Impero zarista, poi l’occupazione nazista, quindi l’ingresso forzato nell’Unione sovietica. Quest’ultimo passaggio ha lasciato conseguenze ancora oggi tangibili: “Ha unito tutti i cristiani in reti di resistenza e gruppi di preghiera clandestini e ha provocato un gap generazionale nella trasmissione della fede”, ha detto al sito Aleteia padre Peteris Skudra, direttore di Radio Maria Lettonia. Un fenomeno che si tocca con mano, dal momento che “ci sono tre generazioni di lettoni con rapporti diversi con la religione: i nonni che sono stati battezzati e sono credenti, i genitori che non sono stati battezzati e non hanno ricevuto una formazione religiosa perché la chiesa è stata soppressa e i figli, ormai trentenni, curiosi sul ruolo che la chiesa può giocare nella loro vita”. La missione di oggi, un quarto di secolo dopo avere ottenuto la libertà, è di riprendere quel filo interrotto, riabbracciando le nuove generazioni.

 

Anche a queste latitudini l’entusiasmo per la presunta fine della storia aveva generato aspettative enormi, ma tutto ha rallentato. E’ come se ci fosse stato “un rallentamento dello spirito”, ha detto il vescovo lituano Kestutis Kevalas, speranzoso che l’arrivo di Francesco possa dare la carica giusta e segnare un nuovo inizio, una ripartenza decisiva. “Venticinque anni fa, le persone erano al culmine della loro esperienza di libertà. Oggi stanno affrontando la realtà dell’economia globale e dell’instabilità finanziaria”, ha osservato l’amministratore della cattedrale di Riga. “Dobbiamo imparare a usare la libertà in modo responsabile e, da questo punto di vista, aspettiamo da Papa Francesco un impulso, una spinta spirituale”, ha detto non a caso a Vatican News mons. Zbignņev Stankevičs.

 

Libertà è un concetto che quassù torna spesso. La sensazione è che la voglia di liberarsi dal dominio asfissiante del comunismo fosse così forte che ha finito per travolgere tutto, anche quei fragilissimi legami con la fede. Resiste la Lituania, ma qui conta la storia vecchia, l’influenza polacca, bastione orientale di quel cattolicesimo che i russi volevano estirpare impedendo la celebrazione del Natale (ridotto a giorno lavorativo). L’obiettivo, dichiarato, era di eliminare completamente la chiesa dalla vita sociale con la prospettiva di rieducare i fedeli, impedendo che i giovani venissero in contatto con la religione. Un altro tratto comune, identitario, è la memoria dei martiri. Anche la piccola Estonia, con la sua sparuta comunità di credenti, ha conosciuto il supplizio. Mons. Edward Proffitlich, amministratore apostolico, morto in carcere nel febbraio del 1942 prima di essere fucilato, come da sentenza. “Quando in Estonia è stato stabilito il potere sovietico, l’ho preso senza entusiasmo, perché come sacerdote sapevo che il potere sovietico lotta contro la religione e non permette nessuna libertà né di parola né di religione”, disse nel corso degli interrogatori: “Nelle mie prediche ho incitato i fedeli a non ascoltare i senzadio e a ricordarsi della chiesa. Ogni giorno ho pregato per la libertà religiosa. Non la ritengo una propaganda. E’ la verità”. La lotta impari contro i carri armati di Mosca ebbe conseguenze tragiche, ha scritto padre Roman Dzonkowski, dell’Università di Lublino e tra i massimi esperti del martirio delle chiese dell’est: ventinove sacerdoti e superiori religiosi massacrati, diciassette deportati e scomparsi, tremila cattolici vittime della persecuzione. Tutto in meno di due anni, tra il 1940 e il 1941. Una “pulizia” che fece sì che dal 1945 e per trent’anni in tutta Estonia vi fosse un solo sacerdote cattolico, il cappuccino Tadeusz Kraus.

 

L’atea Estonia, dove il 76 per cento della popolazione dichiara di non appartenere ad alcun credo.I cattolici, qui, sono seimila

Il supplizio sotto il comunismo: “Ogni giorno ho pregato per la libertà religiosa. Non è propaganda, è la verità”, disse il vescovo Proffitlich

Non sorte migliore ebbe la Lettonia: chiese serrate, sacerdoti deportati, vescovi espulsi. E la fine di Stefans Litaunieks, prete: arrestato e torturato (gli fu posta sul capo una corona di filo spinato), fu fucilato. Per farsi un’idea del tipo di torture adottate dai sovietici – al confronto delle quali i marchingegni medievali erano supplizi innocenti – è imprescindibile consultare il monumentale Testimoni della fede, opera curata da Jan Mikrut ed edita in Italia da Gabrielli.

 

Il viaggio del Papa, però, avrà anche un ovvio risvolto politico. Il sentimento russofobo è più vivo che mai nelle tre repubbliche baltiche, soprattutto nella piccola Estonia. “Nel 1991, una legge molto selettiva e rigorosa revocò la cittadinanza estone a quella parte della popolazione che non fosse riuscita a dimostrare di avere un parente residente nel paese da prima dell’occupazione sovietica”, ha scritto Giovanni Sale sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica, aggiungendo che “a partire dal 2007, la convivenza è diventata più difficile; inoltre la decisione del governo di abbattere tutti i monumenti che richiamavano il periodo sovietico ha contribuito a surriscaldare gli animi”. Più del 6 per cento della popolazione, in Estonia, è apolide. Situazione del tutto particolare, tant’è che lo Spiegel ha parlato di “apartheid a cui è condannato in Estonia e in Lettonia un numero considerevole di persone (si parla di circa 330 mila persone) a motivo della propria etnia. Ricorda ancora Sale che esse “non hanno diritto di voto. Non hanno diritto di lavorare da dirigenti nell’amministrazione pubblica, nella polizia e nell’esercito. Se non hanno un’autorizzazione particolare, non possono recarsi all’estero per lavorare”. Tre paesi fragili, con lo sguardo rivolto a occidente ma perennemente legati a oriente. Una fuga impossibile, nonostante l’adesione alla Nato e all’Unione europea, alla voglia di diventare parte integrante dell’ovest democratico e liberale. La paura di essere risucchiate nel vortice agitato da Mosca è e sarà eterna. Si comprende così la pretesa, forse esagerata agli occhi dell’uomo occidentale nato in paesi risorti grazie al Piano Marshall e cointainment di Truman, benestanti e garantiti nella propria sicurezza dall’ombrello dell’Alleanza atlantica, di avere stabilmente contingenti della Nato posti lungo i confini, guardando le lande russe.

 

“Siamo senz’altro alla periferia dell’Europa. Stiamo sul confine tra Unione europea e Russia, il che rende la situazione geopolitica storicamente difficile”, ha detto all’Osservatore romano il presidente della Conferenza episcopale lituana, mons. Gintaras Grusas. “Siamo in periferia sia in quanto piccolo paese e piccola economia rispetto ai nostri vicini, Russia, Bielorussia o Polonia. E, in qualche misura, siamo sempre di più in periferia nel mantenere valori più tradizionali rispetto a gran parte dell’Europa e nel difendere i valori cristiani, che sono finiti sotto attacco. Così – prosegue l’arcivescovo di Vilnius – sotto avari aspetti siamo un paese della periferia e Papa Francesco viene per incoraggiarci, rafforzarci e anche aiutarci, non solo in materia di fede ma anche nelle questioni sociali come quella della disoccupazione, che crea tante difficoltà alle persone”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.