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Il confine tra ovest ed est e il significato dell'Ue per un lettone

Andrea Affaticati

L’autore tedesco Navid Kerman ha fatto un viaggio verso oriente per incollare insieme il passato e il presente della nostra Europa

A Poznan mi rendo conto che il pane polacco è scuro tanto quanto quello tedesco. La Germania dunque è più vicina all’est che all’ovest. E non è la Weisswurst a segnare il confine tra est e ovest, ma il pane bianco e il pane nero”, scrive Navid Kermani, nel suo bellissimo “Entlang der Gräben” (Lungo le trincee, ed C.H. Beck), che l’editore Keller pubblicherà l’anno prossimo in Germania. Kermani, nato in Germania da genitori iraniani, è un infaticabile viaggiatore e narratore delle vicissitudini storiche e umane di quella parte d’Europa meno conosciuta. Nel 2015 gli è stato conferito il Friedenspreis, il più prestigioso premio letterario tedesco: in Italia è conosciuto per il suo reportage sui rifugiati in cammino lungo la rotta balcanica “L’impeto della realtà”, sempre pubblicato da Keller.

 

Per un anno Kermani ha viaggiato per conto del settimanale der Spiegel attraverso l’Europa dell’est, fin dentro al cuore dell’Eurasia, raggiungendo infine Esfahan, la città d’origine della sua famiglia. Kermani è un osservatore puntuale, empatico ma non enfatico, e racconta di luoghi dai nomi evocativi, Odessa, Sinferopoli, capitale della Crimea, che i greci chiamavano Neapolis Scythica. E le sue annotazioni restano particolarmente impresse: “Altri paesi hanno monumenti alla memoria – scrive – La Bielorussia, invece, dà l’idea di essere un gigantesco memoriale, ovunque ci si imbatte in monumenti che ricordano le vittime, i luoghi di sterminio, le fosse comuni”.

 

Quello di Kermani è un viaggio che, attraverso le testimonianze delle persone che incontra, a volte intellettuali noti, come il direttore del settimanale polacco Gazeta Wyborcza, Adam Michnik, altre volte gente comune, permette di grattare sotto la superficie e inanellare passato e presente: “È incredibile quanto sia ancora presente il passato in ogni singolo paesino, singola strada, famiglia. Ma non è anche questo un modo per far affiorare una memoria collettiva?”, osserva durante un incontro a Minsk con Svjatlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura: “No – gli risponde l’autrice di “La vita in Russia dopo il crollo del comunismo” (racconto corale di persone comuni, testimoni del crollo dell’Urss) – Perché venga a formarsi una memoria collettiva bisogna mettere nero su bianco i ricordi”.

 

A volte in occidente si sa di più dell’India o del tempio di Angor Wat in Cambogia che dei paesi più vicini. Kermani racconta che durante il XX secolo Vilnius è passata ben tredici volte da una mano/parte all’altra. Nel XV secolo il Granducato di Lituania era lo stato più esteso d’Europa. Poi sono arrivate le dominazioni: prima russa, poi polacca, poi sovietica. “Da tempo Vilnius si trova relegata ai margini... oggi dell’Unione europea. Il che, almeno apparentemente, ha fatto bene alla città, alla sua architettura barocca non ancora trasformata in un parco divertimenti. Qui si trovano piccole corti, chiese raccolte, buoni ristoranti e molto commercio al dettaglio... un’Europa dove il tempo pare essersi fermato, almeno di tanto in tanto”.

   

Questa parte di continente è come una specie di software primordiale, non ancora aggiornato a differenza della sua metà occidentale, così omologata dalla globalizzazione che non sarebbe nemmeno più possibile resettarla. Il passato di queste “Bloodlands”, come li chiama lo storico americano Timothy Snyder, sembra aver pietrificato i destini, e sarà anche per questo che la commistione con l’omologazione agli occidentali che si avventurano da questa parte del vecchio continente risulta al tempo stesso rassicurante e grottesco: “Cracovia, 60 chilometri da Auschwitz, mangiare in un ristorante kosher è anche un modo per provare a comprendere più a fondo, solo con l’illusione del happy end”, annota Kermani. Ed è ovvio che in questo universo “easy jet”, in questa Europa che omologa tutto, c’è chi non ci si ritrova più.

 

Che chi, come Valentin Akudovič, autore del libro “Il codice dell’assenza – Tentativo di conoscere la Bielorussia”, da una parte vorrebbe che il proprio paese entrasse nell’Ue e al tempo stesso difende il nazionalismo. Un controsenso? “No, le due cose stanno insieme”, risponde . “Vogliamo entrare in Europa e al tempo stesso sviluppare la nostra identità nazionale. Questo sotto la Russia che ci fagocita non è possibile”.

 

Ma cosa significa l’Unione europea oggi per un lettone che abita in un paesino sperduto ai confini con la Bielorussia? Kermani se lo fa dire in un miscuglio di russo e polacco da Michal, classe 1939, nato in Unione sovietica e che la lingua del paese di cui è ora cittadino non l’ha mai imparata. “Beh finanzia la mia pensione... ma non crea lavoro”. E a parte la pensione cos’altro rappresenta per lei? “Europa significa che oggi la gente può ubriacarsi già in pieno giorno... sotto il comunismo c’era più disciplina”. E se si tornasse all’unica separazione pacifica mai esistita, quella del pane?

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