Il gruppo finanziario Man non sarà più lo sponsor del Booker Prize (Immagini prese da Facebook)

Antielitario e isolazionista, anche il Booker Prize vuole la sua Brexit

Antonio Gurrado

Via lo sponsor globale dal prestigioso premio letterario, in vista del ritorno di soli autori britannici

Capitalismo e globalizzazione, nientemeno, sono al centro dell’ultimissima polemica letteraria inglese. L’ha scatenata l’annuncio che il gruppo finanziario Man, un hedge fund londinese che al momento gestisce circa 90 miliardi di sterline, ritirerà la sponsorizzazione garantita al Booker Prize, da mezzo secolo il più prestigioso premio letterario anglofono. Iniziata nel 2002, la partnership ha avuto due conseguenze sostanziali: il lievitare dell’assegno per il vincitore fino a 50 mila sterline e, dal 2014, l’apertura del concorso a romanzi di qualsiasi autore anglofono purché pubblicati nel Regno Unito. La sponsorizzazione si è rivelata poco lucrativa, costando a Man circa un milione e mezzo di sterline all’anno, ed è caduta vittima di una revisione delle spese che ha portato il gruppo a privilegiare in futuro il finanziamento di attività di beneficenza, che pare garantiscano un migliore ritorno d’immagine.

 

A essere in discussione sono proprio le due novità apportate dall’intervento di Man. Originariamente il Booker era rivolto solo ad autori britannici, con a ruota irlandesi e cittadini del Commonwealth; l’ampliamento a tutta l’anglofonia si è risolto, di fatto, nell’inclusione degli autori statunitensi che hanno vinto ben due delle ultime cinque edizioni, con Paul Beatty e George Saunders. Perfino una persona sensata come Jonathan Barnes, all’epoca, definì l’allargamento scelta estremamente sciocca e l’obiezione più comune al riguardo era che così si sarebbe limitata la varietà etnica dei partecipanti: ancora nel 2013 la longlist comprendeva neozelandesi, canadesi, malesi, zimbabwiani, successivamente sopraffatti dall’inesorabile preminenza numerica degli Usa. Fioccarono appelli e lettere aperte ma pochi intellettuali parvero considerare che gli scrittori non abitano una nazione bensì una lingua e che ampliare il premio a tutta l’anglofonia ne avrebbe incrementato globalmente il già solido prestigio.

 

Ora che Man si ritira, è probabile che prevalga il provincialismo. John Banville ha già richiesto una specie di Brexit letteraria, richiedendo che il premio torni a essere appannaggio esclusivamente degli autori britannici; insiste però nell’assimilare a essi gli irlandesi e i membri del Commonwealth a solo discapito degli statunitensi. Indizio: Banville è irlandese. Come tale, del resto, forse ricorderà che solo dal 2016 (con “Solar Bones” di Mike McCormack) è stata consentita la partecipazione anche di romanzi anglofoni pubblicati in Irlanda ma non nel Regno Unito, in nome della nuova vocazione globale del premio. Perché ciò debba valere per più o meno oscuri stampatori dublinesi ma non per, che so, Paul Auster, rimane un mistero.

 

Nei salotti si mormora con una certa insistenza che la spending review sia stata una scusa e che Man abbia cambiato idea a causa delle parole pronunciate a luglio da Sebastian Faulks. I gestori di hedge fund, aveva sostenuto lo scrittore, sono il tipo di persone da cui i premi letterari dovrebbero guardarsi disprezzandoli, non prendere soldi. Anche qualora lo spregevole sponsor raddoppiasse la cifra in palio rendendo il premio ancor più appetibile e l’impatto sulla vita successiva degli autori ben più benefico. Faulks non considerava però come il nome stesso del Booker Prize non avesse niente a che fare coi libri ma derivasse da una ditta di trasporti di alimentari all’ingrosso, la Booker-McConnell, che nell’Ottocento monopolizzava l’industria dello zucchero in Guyana. Non si tratta, in fondo, di un altro esempio di capitalismo estremo? Perché Booker va bene e Man no?

 

Se la letteratura con annesse chiacchiere è un termometro sociale, anche il Booker Prize resta vittima dei due mali del nuovo secolo: l’antielitarismo pauperista, per cui i soldi che arrivano da una committenza compromessa con l’alta finanza sono necessariamente sporchi, e il nazionalismo identitario, che rifiuta di accettare che negli Usa si parla più o meno la stessa lingua del Regno Unito (nonché dell’Irlanda e del Commonwealth). In effetti il riconoscimento non è nuovo a queste polemiche estreme. Nel 1972, addirittura, il vincitore John Berger dedicò il discorso di accettazione alla denuncia degli abusi colonialisti compiuti nei Caraibi dalla Booker-McConnell, versando poi metà del premio in denaro alle Black Panthers. Decisione meno efficace e saggia di quella intrapresa da Kinglsey Amis quando vinse al terzo tentativo, nel 1986. Interrogato su come avrebbe speso così tanti soldi, rispose: “Ubriacandomi. Il resto, in tendìne”.

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