Un uomo espone la foto di Pawel Adamowicz, il sindaco di Danzica assassinato, alla cerimonia del funerale (Foto LaPresse)

Imparare dai nostri muri. Lezione di sguardi aperti sulla propria storia

Andrea Affaticati

Il libro di Assmann spiega come salvare il sogno europeo (si parte da Danzica)

Chi è stato a Danzica ha visitato molto probabilmente anche il Museo di Solidarnosc inaugurato nel 2014. Un museo pensato inizialmente come testimonianza del ruolo precursore che la rivolta dell’agosto del 1980 da parte di un gruppo di lavoratori dei cantieri di Danzica ha avuto nel minare il Blocco di Varsavia. Raccontato altrimenti, che tutto era partito da Danzica e non dalla rivolta pacifica, nove anni dopo, dei cittadini della Germania dell’Est e dei Paesi baltici. Non era però questa la narrazione che interessava Basil Kerski, nominato nel 2011 direttore del museo. A lui premeva che il museo fosse un contributo allo sviluppo della democrazia in Europa, al dialogo fra la visione di futuro polacca e quella europea.

 

Domenica 13 gennaio, proprio mentre gli occhi scorrevano questa ricostruzione in divenire del Museo di Solidarnosc raccontata nel libro di Aleida Assmann “Il sogno europeo - Quattro lezioni da trarre dalla storia”, da poco uscito in Germania (C. H. Beck Vlg.) i media trasmettevano la notizia dell’accoltellamento mortale del sindaco di Danzica, Pawel Adamowicz, mentre partecipava a un evento di beneficienza. Un attentato maturato nel clima di crescente odio politico e opposte visioni sul futuro della Polonia.

 

Aleida Assmann è professore emerito di anglistica e letteratura, insignita l’anno scorso insieme al marito, l’egittologo e studioso di religioni Jan Assmann, del Premio della Pace, il più importante premio letterario tedesco. Al centro di questo saggio c’è l’Europa, il suo futuro, in un momento in cui i paesi si stanno sempre più chiudendo dietro muri e sordità nazionaliste. Ma come contrastare questa processo di ripiegamento? Per Assmann c’è un solo modo, ed è quello di ripartire dalle lezioni che tutti i paesi hanno tratto dalle due grandi tragedie del XX secolo. Lezioni che, se si vogliono mettere a frutto, devono però basarsi non più su una memoria esclusivamente monologante, ma su una memoria veramente dialogante. Solo così il processo di integrazione europea potrà riprendere il proprio cammino.

 

Le lezioni comuni a tutte le nazioni europee sono le seguenti: il mantenimento della pace; la democratizzazione; la cultura della memoria; i diritti umani. Concetti che oggi più che acquisiti si danno per scontati e per questo rischiano di essere vuota retorica se non si conoscono le tappe che le hanno generate. Assmann le elenca una dopo l’altra. Ricorda il 9 maggio 1950, quando il ministro degli Esteri francese Robert Schumann pronunciò il discorso in cui comparve per la prima volta l’idea dell’Europa come unione economica, idea dalla quale sarebbe scaturita la Ceca (Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio). Ricorda l’8 maggio del 1985 quando l’allora capo di Stato della Repubblica Federale Tedesca Richard von Weizsäcker proclamò l’8 maggio 1945 giorno della liberazione della Germania, e non più della sconfitta.

 

Ricorda il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese François Mitterand tenersi per mano a Verdun il 22 settembre 1984. Ma anche l’11 novembre 2014 quando il presidente François Hollande inaugurava l’Anello della Memoria, un monumento transnazionale in memoria delle vittime dei vinti e dei vincitori della Prima guerra mondiale. Celebrazione dalla quale furono però assenti il principe Carlo d’Inghilterra, l’allora premier David Cameron e anche Angela Merkel. Assmann definisce la prima guerra mondiale la “Urkatastrophe”, la catastrofe originaria dell’Europa, alla quale seguì poco dopo l’orrore della seconda guerra mondiale, retaggio tragico dal quale tutto il continente ha però tratto la lezione: mai più guerre.

 

A unire l’Europa è stato il processo di democratizzazione, un processo comune per quanto diverso per ogni paese: per il cancelliere Konrad Adenauer prima si doveva ricostruire e solo dopo fare i conti con il passato. Ne seguirono gli anni del “kommunikatives Beschweigen” del silenzio comunicativo. Ci volle il ’68, la rivolta contro i padri, a minare questo silenzio. Ancora nel 1995 una mostra ad Amburgo sui crimini perpetrati dalla Wehrmacht avrebbe creato scandalo e accesi moti di contestazione e protesta. “La memoria dei vincitori celebra le vittorie, non le sconfitte”, scrive Assmann. Per questo la cultura della memoria da autoreferenziale “monologante” deve diventare inclusiva “dialogante”.

 

Infine c’è la lezione dei diritti umani. Il termine minoranza, spiega Assmann, è figlio degli stravolgimenti geopolitici del XX secolo. È allora che compaiono termini come la “questione degli armeni” e la “questione degli ebrei di fatto gente che, dopo la fine degli imperi multietnici si ritrova senza patria e diritti. Oggi c’è la “questione dei migranti”. Il tema minoranze, ma ribaltato, viene addotto anche dal politologo bulgaro Ivan Krastev per spiegare l’involuzione dei paesi dell’Est, un tempo scesi in strada per rivendicare il diritto alla libertà mentre oggi tornano a erigere muri che diano sicurezza. Non tutte le posizioni di Krastev sono condivisibili, precisa Assmann.

 

Il politologo definisce l’arrivo in massa nell’estate del 2015 dei migranti “l’11 settembre dell’Europa”. Ciò nonostante vale la pena riflettere sulla spiegazione che Krastev dà riguardo al rifiuto da parte dei paesi dell’Est di accogliere i migranti: una chiusura dettata dalla paura diventare minoranza nel proprio paese, visti i molti connazionali migrati altrove nell’Ue. E ancora riguardo al rifiuto tout court dei valori fondanti dell’Ue. Valori vissuti come “imperativo categorico di imitazione” imposto dall’Ue e che li deruba della loro storia, del loro orgoglio, della loro dignità e della loro identità. “Forse la commemorazione comune non sta nel unire le diverse prospettive, ma nell’apprendere la prospettiva del vicino” scrive Assmann. Ma solo a seguire il lento procedere della Germania che qui funge da esempio emblematico, e a ripensare all’attentato al sindaco di DanzicaAdamowicz si professava europeista convinto ed è questa fede a essergli stata fatale – la strada da percorrere resta lunga, molto lunga.

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