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Redazione

La Corte suprema americana smantella l’obbligo di reclamizzare l’aborto

La Corte suprema americana non si è espressa ieri soltanto sulla controversia che riguarda l’apertura dei confini, ma ha sentenziato anche in quella delicata zona grigia in cui s’incontrano la battaglia culturale e la libertà di espressione. Il caso esaminato dai giudici riguarda una legge della California, esemplare per quanto riguarda i paradossi che discendono da una certa idea di libertà, che impone a tutti i “pregnancy crisis center”, i consultori che assistono le donne in attesa, di pubblicizzare la possibilità di avere un aborto gratuitamente. La legge vale anche per i centri con affiliazioni religiose o che esplicitamente sono contrari all’interruzione di gravidanza, e dunque cercano di offrire alle future madri che si presentano ragioni e ipotesi alternative per convincerle a portare a temine la gravidanza. I sostenitori della legge dicono che questa si limita soltanto a informare correttamente i cittadini circa le varie opzioni a disposizione, ma i titolari dei centri antiabortisti sostengono invece che lo stato li rende obbligatoriamente portavoce di idee contrarie alla loro coscienza o alle loro convinzioni religiose. Una violazione del Primo emendamento, garante a un tempo della libertà religiosa e della libertà di espressione. La Corte d’appello federale, la stessa che aveva invalidato il “travel ban” approvato dalla massima corte, aveva respinto i ricorsi, ma la Corte suprema ha ribaltato la sentenza, notando che il mandato della legge californiana “impone obblighi ingiusti” che sono contrari alla “protezione della libertà di parola” garantita dal più amato degli emendamenti della land of the free.

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