Schiacciare il Pkk

Adriano Sofri

È naturale che Erdogan abbia voglia di stravincere ora su ambedue i fronti, quello siriano e quello turco-iracheno, e di valersene anche per trionfare delle opposizioni interne

Dalla difesa di Kobane in poi, l’esperienza civile del Rojava si è venuta realizzando in un contesto di condizioni tragicamente fortunose. Il Pyd (Partito dell’unione democratica curdo siriano) e le sue formazioni combattenti maschili e femminili, Ypg e Ypj (Unità di protezione popolare e delle donne) hanno preso una parte decisiva nella resistenza e poi nella controffensiva contro lo Stato islamico. Hanno prevalso su altri gruppi curdi e hanno guadagnato un rilievo preminente rispetto all’impegno militare delle comunità curde, compreso quello del partito guida, il Pkk radicato nel nord-est turco, ma col suo stato maggiore in esilio nella montagna di Qandil, nella regione curdo-irachena. Hanno ottenuto, nel pieno della difesa di Kobane (anzi, sul punto di soccombere definitivamente) il sostegno militare dell’alleanza internazionale contro l’Isis, in sostanza degli Stati Uniti, la cui azione dal cielo combinata con la loro al suolo ha alla lunga – lunga anni infatti – avuto ragione sul campo dello Stato islamico. Gli Stati Uniti hanno escogitato una distinzione equilibrista fra Fds (Forze democratiche siriane, curde, arabe e assiro-siriache), protagoniste della guerra all’Isis, e Pkk, di cui continuavano a ribadire la natura terrorista, condivisa ufficialmente dagli europei. 

 

 

Il regime turco, provatamente responsabile di un favoreggiamento nei confronti dello Stato islamico oltre al proprio confine, ha viceversa continuato a identificare senza alcuna distinzione Pkk e curdi del Pyd, benché dal Rojava non sia mai venuta una mossa contro la Turchia, e benché una distinzione significativa, coi cantoni a maggioranza curdo-siriana e il loro “confederalismo democratico”, stesse avvenendo e potesse essere foriera di progressi anche all’interno della Turchia. Dove un va e vieni di aperture e chiusure sincere o finte è finito ripetutamente in un vicolo cieco, ma un punto è inequivocabilmente stabilito: che anche l’opposizione armata curda e il Pkk hanno da tempo rinunciato al secessionismo e al programma di uno stato curdo, mirando invece a un autogoverno delle regioni a maggioranza curda. Oggi l’esperienza del Rojava sembra condannata dal tradimento di Trump e dall’interesse universale – Russia di Putin e Siria di Assad comprese – a spartirsi le spoglie del vasto territorio conquistato dai curdi sbarazzandosi dei loro diritti e delle loro pretese, oltre che a felicitarsi dello sgombero servile degli Stati Uniti. Una situazione così drammatica farebbe pensare a uno spostamento dell’impegno curdo verso il conflitto interno alla Turchia e la sua direzione da parte del Pkk. Il quale però ha subìto, in particolare in questo ultimo anno, colpi molto duri nelle sue basi curdo-irachene, perdendo dirigenti militari e politici di primo piano. La Turchia, che ha una supremazia aerea senza ostacoli e bombarda regolarmente dentro il territorio montuoso della regione curdo-irachena, ha rafforzato enormemente il proprio controllo anche sulle incursioni dei combattenti del Pkk alla frontiera grazie all’impiego sempre più efficace dei droni. Verso il Pkk, così indebolito, la relativa solidarietà di qualche fazione curdo-irachena, soprattutto nel Puk di Suleymania, è oggi molto più renitente: il Pdk di Erbil è da sempre insofferente della presenza del Pkk, estesa negli anni alla regione yazida di Shingal, a Makhmour e all’area di Kirkuk. Il governo di Barzani è legato fino alla dipendenza alla Turchia, e l’ha mostrato ancora nelle tepide espressioni di solidarietà con sorelle e fratelli del Rojava, sentitissima invece dalla gente. E’ naturale che Erdogan abbia voglia di stravincere ora su ambedue i fronti, quello siriano e quello turco-iracheno, e di valersene anche per trionfare delle opposizioni interne. Di cui è giusto, e anche penoso, rilevare che sono state trascinate, più o meno volentieri, nell’esaltazione patriottica dell’“operazione di sicurezza”, ma che hanno altre risorse. 

 

 

Il sindaco di Istanbul, Imamoglu, si era procurato due mesi fa grossolane minacce di destituzione dal governo dell’Akp, il partito di Erdogan, per aver esorbitato dal suo mestiere facendo visita a Diyarbakir e a Mardin ai sindaci curdi dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, eletti democraticamente e rimossi brutalmente dal governo. “Vi porto il saluto di 16 milioni di cittadini di Istanbul”, aveva detto. L’Hdp ha il suo fondatore, Selahattin Demirtaşsş, illegalmente detenuto da tre anni, come tante altre e altri parlamentari e amministratori e dirigenti. Il Trump che si premurava di dichiarare che il Pkk è peggiore dell’Isis, aveva appena scritto a Erdogan per raccomandargli quel bravo ragazzo del comandante delle Sdf, il generale Mazloum Kobani, con cui si sarebbe messo d’accordo in un batter d’occhio. C’è una fotografia che i media del regime turco espongono a dimostrare che Mazloum Kobani (Ferhat Abdi ŞSahin) è il terrorista di sempre: lo mostra, ragazzino, mentre nuota dietro “Apo” Ocalan nei flutti dell’Eufrate. Il tempo non passa mai, in quelle antichissime acque. 

 

 

Sembra il momento più duro per la gente curda e per le sue organizzazioni: può diventare il momento di una iniziativa eroicamente nonviolenta?

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