Le forze filoturche a Ras al-Ain, nel nord della Siria (foto LaPresse)

Trump negozia la sospensione dell'offensiva turca che aveva approvato

Daniele Raineri

I turchi concedono centoventi ore di tregua nel nord della Siria per evitare le sanzioni americane. Undici giorni di crisi rivisti giorno per giorno

Roma. Giovedì il vicepresidente americano, Mike Pence, ha annunciato che la Turchia ha accettato un cessate il fuoco di 120 ore per evitare le sanzioni americane. I curdi in quel lasso di tempo dovranno ritirarsi a sud della zona di trenta chilometri che l’esercito turco vuole sotto il suo controllo. Di fatto, la Turchia accetta la tregua ma soltanto se porterà alla vittoria militare che cercava. Pence era ad Ankara assieme al segretario di stato, Mike Pompeo, per ottenere la sospensione dell’offensiva turca che aveva avuto il via libera dal presidente americano Donald Trump domenica 6 ottobre. Sono stati undici giorni di politica estera bizzarra e spettacolare anche per gli standard bizzarri e spettacolari dell’Amministrazione Trump.

 

 

Mercoledì 16 ottobre i jet americani hanno bombardato e distrutto la fabbrica Lafarge di cemento nel nord della Siria. E’ un luogo simbolo della guerra contro lo Stato islamico, molto riconoscibile per i grandi silos accanto al corpo dell’edificio principale – il tutto isolato in un pezzo di campagna siriana. Quando i terroristi conquistarono quel posto decisero di fare un accordo con l’azienda francese proprietaria della fabbrica (un accordo che al momento è oggetto di un’inchiesta giudiziaria in Francia) e non la distrussero in cambio di una percentuale sui guadagni. Quando i curdi cacciarono i fanatici, gli americani trasformarono l’edificio prima in una base militare e poi nel quartier generale in Siria della campagna contro lo Stato islamico. Da lì hanno diretto tutte le battaglie che in questi anni hanno ridotto a zero il territorio controllato dai fanatici. Ma due giorni fa gli americani hanno abbandonato il comando perché le forze turche – o le milizie siriane che combattono per la Turchia, non si è capito – erano ormai troppo vicine. La situazione era così incerta che è arrivato l’ordine di evacuazione. Prima gli aerei hanno fatto passaggi a volo radente sopra i turchi per intimidirli e rallentare l’avanzata, poi hanno sganciato alcune bombe di precisione sull’edificio per distruggerlo – dopo che i soldati americani lo hanno abbandonato – in modo che il magazzino di munizioni, troppe per essere portate via, non cadesse in mano ad altri e che nessuno potesse più usare quel posto per scopi militari. La distruzione della fabbrica Lafarge è la dimostrazione di un concetto che a questo punto dovrebbe essere chiaro: è vero che la presenza americana nel nord della Siria accanto ai curdi non poteva essere eterna, ma c’è modo e modo di andarsene e quello che vediamo in questi giorni è tutto un fuori programma. I soldati americani agiscono in stato d’emergenza ma il problema è a Washington, dove da dodici giorni l’Amministrazione americana è in stato confusionale per colpa di una contraddizione irrisolvibile: il presidente voleva il ritiro dalla Siria del nord ma non ne voleva le conseguenze. Ha improvvisato e gli è andata male.

 

 

E’ una storia che è successa sotto gli occhi del mondo, tweet dopo tweet, notizia dopo notizia e comunicato dopo comunicato.

 

Domenica 6 ottobre Trump dà il via libera all’operazione turca contro i curdi nella Siria del nord. Il sito Bloomberg ipotizza che Trump credesse che Erdogan stesse bluffando, ma è difficile: questa è la terza operazione militare della Turchia nel nord della Siria e all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il presidente Erdogan aveva mostrato in anticipo il suo piano davanti a tutti. A quel punto qualcuno deve avere spiegato a Trump le conseguenze del suo comunicato del giorno prima e lui scrive un tweet storico, quello che dice “nella mia grande e incomparabile saggezza…” in cui minaccia di devastare l’economia turca se Erdogan attacca. Il giorno dopo scrive su twitter: “Non abbiamo abbandonato i curdi”.. Il giorno dopo ancora scrive una lettera a Erdogan, che è finita in mano ai giornalisti soltanto due giorni fa e in cui Trump implora e minaccia il presidente turco affinché non faccia partire l’operazione: "Facciamo un buon accordo!”. “Non voglio prendermi la responsabilità di distruggere l'economia turca – e lo farò”. “La storia ti giudicherà bene se procederai nel modo giusto e umano”. “Non fare il duro. Non fare lo stupido! Ti chiamo più tardi”. E’ il 9 ottobre: Erdogan lancia lo stesso l’operazione militare. Il segretario di stato, Mike Pompeo, prova a cambiare la storia e dice che “non abbiamo mai dato il via libera alla Turchia”. Venerdì 10 ottobre Trump tenta un po’ di contenimento del danno, dice che i curdi comunque non sono tra gli alleati più stretti dell’America: “Non c’erano in Normandia”. L’argomento non sembra proprio invincibile. Lo stesso giorno il Pentagono tenta di chiarire che non c’è stato un ritiro americano dalla Siria nel nord, ma soltanto uno spostamento di appena cinquanta-cento operatori delle forze speciali dal confine, dalla zona dove ci si aspettava l’attacco turco. L’idea è dare l’impressione che è tutto sotto controllo, l’America gestisce la situazione ed è ancora sul terreno. Quarantott’ore dopo il segretario alla Difesa americano, Mark Esper, va in tv a dire che la situazione è intenibile e quindi comincia un “ritiro deliberato” di mille soldati americani – in pratica l’intero contingente – dalla Siria del nord, dove “deliberato” è l’aggettivo che dovrebbe puntualizzare che il Pentagono ha deciso di ordinare il ritiro in base a sue valutazioni, non perché è costretto dalla situazione sul campo. Lunedì 15 Trump pubblica su twitter un comunicato ufficiale (ma c’è differenza fra i tweet e i comunicati?) in cui annuncia che presto imporrà sanzioni contro la Turchia, perché ha fatto partire un’operazione militare approvata da Trump otto giorni prima. Martedì 15 dicembre i soldati russi entrano in una base appena abbandonata dai soldati americani e il simbolismo è fortissimo: americani fuori, russi dentro, la missione americana è fallita e quella russa è un successo. I giornali a Mosca gongolano, fanno titoli come “Il gigante americano ha perso la strada”. Trump telefona al generale curdo Mazloum Abdi e gli dice scherzosamente “qui con me c’è gente che ama di più voi che l’America”. Mercoledì 16, durante la conferenza stampa con il presidente italiano Sergio Mattarella, Trump ritenta l’angolo dei curdi cattivi alleati: “non sono angeli” e “il Pkk è una minaccia più seria dello Stato islamico”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)