Analisi di una resa

Daniele Raineri

Più una capitolazione che un accordo fra Trump e Erdogan. Tutto ai turchi, in attesa di Putin

Roma. L’accordo di tredici punti fra Turchia e America per una tregua nel nord della Siria è più una capitolazione che un “accordo”. Dal punto di vista pratico, il presidente turco Erdogan voleva prendere una fascia di territorio siriano profonda trenta chilometri e l’accordo stabilisce che l’avrà: le unità combattenti dei curdi devono ritirarsi dalla fascia (definita “safe zone”, zona di sicurezza) entro cinque giorni. In cambio i turchi sospendono l’offensiva e i bombardamenti e la Casa Bianca annulla le sanzioni che aveva minacciato di imporre lunedì 14 ottobre. Traduzione: i turchi accettano di non combattere se i curdi consegnano esattamente quello per cui i turchi stanno combattendo e devono farlo nell’arco di centoventi ore. Difficile definirlo un accordo.

 

Per ottenere questo risultato giovedì si sono mossi il numero due dell’Amministrazione Trump, il vicepresidente Mike Pence, e il numero tre, il segretario di stato Mike Pompeo, che sono volati ad Ankara per trattare in modo diretto con Erdogan – che in questi giorni non ha mai dato alcun segno di tentennamento, sia dopo la lettera personale mandata da Trump il nove ottobre sia dopo la minaccia delle sanzioni.

Trump ha celebrato l’accordo: “Sono lieto di annunciarvi un successo tremendo per quel che riguarda la Turchia – ha detto ai giornalisti – è un risultato incredibile. Questo è un risultato che, a dispetto di come la stampa tenterà di sminuirlo, abbiamo cercato di raggiungere per dieci anni”.

 

I curdi hanno aderito alla tregua – sono la parte perdente, ogni sospensione dei combattimenti è la benvenuta. Ma il comandante Mazloum Abdi ha detto che le sue forze si ritireranno soltanto dal segmento di confine tra le città frontaliere di Ras al Ayan e Tal Abyad, quindi dai cento chilometri tra i due punti d’ingresso da cui le truppe turche sono entrate nella Siria del nord. Degli altri trecento e più chilometri di confine ancora in mano ai curdi a est e a ovest di quel tratto non dice nulla, forse perché a questo punto non è più titolato a parlare come se prendesse decisioni autonome. Ora si coordina con il regime di Damasco, che vuol dire coordinarsi con la Russia di Vladimir Putin. E guarda caso il lasso di tempo concesso dai turchi finirà proprio il giorno in cui Erdogan andrà a incontrare Putin.

 

In breve: la Turchia ha sospeso la guerra per cinque giorni, ha allontanato il rischio di sanzioni americane e adesso si aspetta il faccia a faccia fra il presidente turco e quello russo per definire le questioni che sono ancora in sospeso. Erdogan ha già fatto sapere che se il regime siriano ripulisse le cittadine importanti della zona, come Kobane, Manbij e Qamishlo, dalla presenza dei combattenti curdi per lui andrebbe bene. Alla fine il risultato sarebbe lo stesso: la Turchia avrebbe creato una zona-cuscinetto in cui riversare molti profughi siriani che oggi vivacchiano in territorio turco e lungo il resto del confine ci sarebbe l’esercito di Assad a spezzare la continuità fra curdi della Turchia e curdi della Siria. Se anche fosse vero come dice Trump che l’America inseguiva questo accordo da dieci anni – ma non è vero – è chiaro che le decisioni finali, quelle che contano, non saranno prese a Washington.

 

Se i curdi accettassero di abbandonare la safe zone indicata dalla Turchia perderebbero il territorio in cui sono maggioranza e diventerebbero di fatto dei rifugiati a pochi chilometri dai posti che chiamavano casa. Più a sud, vicino Deir Ezzor, c’è un altro problema: gli arabi che in questi anni avevano vissuto sotto il controllo delle Forze siriane democratiche dopo aver vissuto per un periodo sotto lo Stato islamico adesso non vogliono tornare sotto il regime e protestano. Il trauma politico-militare cominciato con la rivoluzione nel 2011 crea aree di malcontento che potrebbero trascinarsi avanti per decenni.

 

Il sito della rivista americana Atlantic ha posto una domanda interessante: se gli sfidanti democratici in questi giorni dicono che Trump ha tradito i curdi, allora come definirebbero il ritiro americano dall’Afghanistan (che è quasi in arrivo, non manca molto) – che li vede tutti d’accordo? Non è anche quello un voler consegnare gli alleati locali di molti anni nella campagna antiterrorismo a un nemico spietato come i talebani? Non ci sono risposte ufficiali per ora. E oggi lo Stato islamico ha fatto un attentato da sessanta morti in una moschea afghana.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)