Soldati americani in Iraq (LaPresse)

Falso ritiro trumpiano

Daniele Raineri

Trump se ne va dal medio oriente? In realtà manda 14 mila soldati in più. E sposta in Iraq quelli in Siria

Roma. Il presidente americano, Donald Trump, dice di avere ordinato il ritiro di mille soldati dalla Siria perché l’America è stanca di guerre infinite e i militari devono tornare a casa. Davanti ai giornalisti ha anche descritto le scene strazianti delle famiglie che aspettano il ritorno dei caduti in patria e si gettano sulle bare. Per questo, come ha spiegato per almeno tredici volte nell’ultimo anno, ha deciso di mettere fine alla missione americana in Siria e secondo i commentatori è una mossa che conferma la sua linea politica cosiddetta isolazionista. Secondo questa dottrina, i soldati americani devono restare in patria e intervenire all’estero soltanto in casi eccezionali.

 

In pratica però negli ultimi sei mesi l’Amministrazione Trump ha mandato quattordicimila soldati in più in medio oriente, per fare fronte alla tensione crescente nel Golfo. L’ultimo incremento, di tremila soldati, è stato annunciato a fine settembre. Inoltre i soldati americani che erano in missione in Siria e che ieri hanno lasciato il paese in lunghi convogli non tornano a casa ma si spostano in Iraq – quindi appena al di là del confine a est – per continuare la missione “contro lo Stato islamico”, come spiega il Pentagono. In breve: l’America non sta lasciando il medio oriente perché è stanca di guerre, sta semplicemente rimodulando la disposizione dei soldati nella stessa regione.

 

I soldati non faranno più da forza di interposizione fra soldati turchi e i curdi nel nord della Siria. Molti invece saranno schierati nel Golfo e in particolare in Arabia Saudita che, come dice Trump, “ci paga”. A completare il quadro ieri il segretario alla Difesa americano, Mark Esper, ha detto che duecento soldati americani delle forze speciali resteranno in Siria, sempre nella zona controllata dai curdi ma più a sud, vicino ai pozzi di petrolio “per continuare la lotta allo Stato islamico”. Il presidente Trump ha scritto domenica su Twitter: “We have secured the oil”, abbiamo messo al sicuro il petrolio.

   

I soldati americani erano già nella zona del petrolio siriano – una delle loro basi è nell’impianto di al Omar – ed è una zona dove l’infestazione dello Stato islamico è in effetti molto forte. La loro missione è importante dal punto di vista strategico, perché fino a quando restano lì il regime – e i russi – non può attaccare i curdi e riprendersi i pozzi. Nel febbraio 2018 siriani e russi tentarono di attaccare ma furono bombardati dagli americani – morirono centinaia di mercenari russi, è un episodio che il Cremlino non ha mai commentato. L’Amministrazione Trump si tiene i pozzi come carta per negoziare.

 

Duecento soldati, pur se appoggiati dagli aerei che possono intervenire in fretta, sono però un numero esiguo nel mezzo di un territorio pieno di presenze ostili e su tutta la faccenda c’è l’aria di un compromesso disperato tra i generali americani che vogliono tenere qualche posizione e Trump che vuole lo sbaraccamento completo. E abbandonare i curdi nel settore nord, dove i turchi minacciano una sostituzione etnica a colpi di bombardamenti, ma non nel settore sud, dove c’è il petrolio, assomiglia a una caricatura della politica estera americana. Ieri i civili curdi prendevano a sassate i convogli di soldati americani in uscita dalla Siria, gli stessi che avevano festeggiato come preziosi alleati in questi anni, e gridavano: “Traditori!”.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)