Non si fermano le proteste antigovernative a Baghdad (foto LaPresse)

La crisi irachena rimette in causa i suoi stessi equilibri

Adriano Sofri

In una prospettiva di disgregazione, le potenze maggiori e minori che si sentono in diritto di allungare le unghie sulle spoglie dell’Iraq sono pressoché tutte, a cominciare da Iran e Stati Uniti

La crisi irachena, che Daniele Raineri qui esemplarmente segue e commenta, ha una portata così profonda da rimettere in causa, non dirò “gli equilibri” dell’intera regione, parola buffa, ma gli stessi suoi squilibri. La rivolta di Baghdad e del sud del paese, in cui i giovani e anche le donne hanno tanta parte, per un verso appare ai poteri maggiori, e in particolare agli iraniani, come un’occasione per prevalere sul secondo tutore dello pseudo-stato iracheno, gli Stati Uniti, nel pieno dell’ubriachezza di Trump, e però insieme mostra una vera difficoltà degli stessi guardiani iraniani e del loro onnipotente capo, Qassem Suleimani. Scontri e rivalità fra leader, famiglie e bande armate sciite sono endemiche, ma stanno prendendo l’ampiezza di una guerra civile fra sciiti, questa invece senza precedenti, mentre sunniti e curdi stanno in disparte. Dopo il massacro compiuto dalle milizie filoiraniane di Hadi al Ameri, Almuhandis, Assab al Haq di Alkhazali, e di al Maliki, e degli stessi sgherri iraniani mascherati e travestiti da “ricostruttori dei santuari sciiti”, a Kerbala, la città del martirio dell’imam Husseyn che è la più cara al cuore dei fedeli sciiti, ieri il rivale capopopolo sciita Moqtada al Sadr, che era appena andato e tornato in Iran, si è recato a Najaf, che è il luogo sacro della tomba di Ali e il centro della struttura religiosa sciita. A Najaf fu assassinato nel 1999 il padre di Sadr, il Grande Ayatollah Muhammad Saseqh al Sadr, con due dei suoi figli. Moqtada, che non è riuscito a essere un religioso ma ha un gran potere sulla moltitudine di Sadr City, una ingente forza armata e la più forte coalizione parlamentare, ha ammonito il governo e il primo ministro Abdul Mahdi a dimettersi e convocare elezioni anticipate, e ha rivolto al suo principale antagonista sciita, al Ameri, l’invito a collaborare per ottenere una nuova legge elettorale, le elezioni e una riforma costituzionale.

 

Nel regime iracheno la presidenza della repubblica spetta a un curdo, la guida del governo a uno sciita e la presidenza del Parlamento a un sunnita. La costituzione fu l’approdo più faticoso della cosiddetta stabilizzazione successiva all’intervento americano, e la sua revisione allarma in particolare i curdi, che vi ebbero una parte rilevante e temono di perdere le garanzie che riconosce loro. In questi giorni un tema costante di divisione fra le fazioni irachene, i poteri delle province contrapposti a quello centrale, ha visto infine un provvedimento come lo scioglimento dei consigli provinciali – tranne quelli della regione del Kurdistan iracheno – e la conservazione dei governatori in carica, ma sottoposti a una supervisione del centro: un tentativo di offrire alla rivolta popolare la sensazione che sia colpito il notabilato corrotto delle varie province. Per Kirkuk, come al solito – petrolio e gas e prestigio – si è fatto ricorso a uno status speciale, per cui a vigilare sul governatore saranno i parlamentari. Nessuna di queste misure sembra frenare la ribellione, che rivendica con forza la demolizione del regime dei cosiddetti partiti, fazioni tutte militarizzate e variamente infeudate alle potenze adiacenti, l’Iran soprattutto; ma anche l’Arabia Saudita ha moltiplicato i tentativi di alleanze. C’è il coprifuoco notturno a Baghdad e in altre città, il porto strategico di Um Qasr, nella provincia di Bassora al confine col Kuwait, è chiuso e nessuna compagnia marittima intende arrischiare le sue navi, con un ulteriore enorme aggravio del commercio e dell’economia irachena. In una simile prospettiva di disgregazione, le potenze maggiori e minori che si sentono in diritto, per così dire, di allungare le unghie sulle spoglie dell’Iraq sono pressoché tutte, Turchia compresa. E l’Iraq resta il luogo cruciale del confronto fra Teheran e Stati Uniti, un luogo dal quale nemmeno lo spensierato Trump può immaginare di andarsene con una telefonata.

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