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Ca-ca-caffè. Storia della mia balbuzie

Luciana Grosso

Quarant’anni dopo è ancora lì. La soluzione è trovare qualcuno che ti aspetti

La scorsa settimana ho compiuto quarant’anni. Ovviamente, come cliché vuole, mi sono messa a fare bilanci. Com’è andata? Così così, dai, come tutti: ogni tanto ho vinto, ogni tanto ho perso, una manciata di volte me la sono vista brutta, altre ho avuto un sacco di fortuna. Nella media.

 

Poi mi sono chiesta se somiglio alla persona che sognavo di diventare quando avevo 16 anni. E la risposta che mi sono data è stata che no, sinceramente, non credo. Però penso anche se la me di 24 anni fa mi incontrasse oggi, potrei esserle simpatica. Almeno fino al momento in cui non aprissi bocca. In quel momento, lo so, leggerei una completa e disarmante e disperata delusione nei suoi occhi. La delusione di chi pensa “ancora?”. Eh sì, amica mia, ancora. Mi dispiace, ci ho provato, ma non c’è niente da fare: la balbuzie è sempre qui. La storia che racconterò in queste righe è quella di una tizia (io) cui è capitato in sorte che la cosa che sa fare meglio di tutte (parlare: sono una gran chiacchierona e una discreta oratrice) sia anche la cosa che le viene peggio di tutte, proprio l’unica che non è in grado di fare.

 

La balbuzie ti tende agguati improvvisi, ti fa inciampare, ripetere, incasinare, fare smorfie strane. E poi, soprattutto, se sei balbuziente, non sai mai come sarà davvero la frase che stai per pronunciare. Somiglierà a quello che hai in testa? O non c’entrerà niente, perché in corsa ti sei dovuto inventare un sinonimo? Arriverai in fondo? Semplicemente non lo sai: pensi una cosa, prendi fiato, chiudi gli occhi e salti. Lo fai senza avere la minima idea di cosa ci sarà ad attenderti: il soffice materasso di una frase ben detta o le rocce di un umiliante incespicare? La balbuzie, mia compagna invisibile e sempre (sempre) presente, è fatta così. Ti lascia a metà: mai del tutto incapace di dire le cose che vuoi, mai del tutto capace di dirle davvero. Così, ogni volta (ogni fottutissima volta) che vuoi parlare, che vuoi dire una cosa, ci provi e pensi davvero di potercela fare. A volte va bene. Altre (quasi sempre) no. Alcune volte, che tu stia chiedendo un caffè al bar, o dicendo il tuo nome, o parlando con la persona più importante del mondo, una mano invisibile, nascosta da qualche parte tra la tua testa e la tua gola, ti chiude i rubinetti del fiato e ti lascia lì a ripetere una sillaba, a strascinare all’infinito una vocale, a schioccare la lingua. “E niente”, ti dici, “sarà per la prossima frase”. Un balbuziente, di base, è uno che impara molto presto a perdere, perché lo fa centinaia di volte al giorno. Praticamente ogni volta che apre bocca. Ci prova, perde, e ricomincia da capo.

 

Certo, poi con il tempo si impara a controllarla, la balbuzie (“non ti preoccupare troppo”, direi alla me sedicenne, “qualunque cosa non abbia a che fare con la schiena, a quarant’anni ti viene meglio che a sedici, vai tranquilla”), si impara a ingannarla. Ogni balbuziente ha i suoi trucchi: c’è chi stringe il pugno, chi parla piano, chi parla velocissimo, chi si dà il tempo battendo la mano in tasca, chi toscaneggia (le vocali strette richiedono meno fiato di quelle aperte; io, tanto per non farmi mancare niente, sono pure di Milano), chi salta a piè pari le prime consonanti delle parole (e allora ordina una “izza argherita”, tanto si capisce lo stesso), chi gesticola, chi si rifugia nel turpiloquio (le parole volgari sono esenti da balbuzie, vai a sapere perché), chi fa il figo con l’autoironia, chi è un drago a trovare sinonimi (questo vale per tutti i balbuzienti: abbiamo sempre una circonlocuzione a portata di mano). E poi c’è chi, come me, un po’ per pigrizia, ma soprattutto per orgoglio e presunzione, decide di fare come se niente fosse e pensa: “Oh, chi vuole ascoltare aspetta, gli altri s’attaccano”. E questa è la chiave, cara me di sedici anni: trovare qualcuno che ti ascolti, che ti aspetti, che non faccia caso alla guerra invisibile che ti esplode in gola una parola sì e una no, che smorzi l’ira sacrosanta che ti invade ogni volta che non ce la fai. Qualcuno che voglia bere con te tutti i “ca-ca-ca-caffè” della tua vita e che rida alla tue battute anche se sono leggermente fuori tempo.

 

E’ questo lo spoiler, è questa la cura: la balbuzie, cara ragazzina, non se ne va, mai. Ma a un certo punto arrivi tu che trovi la tua voce, le tue cose da dire e il coraggio per dirle comunque, balbuzie o no. La soluzione non è respirare col diaframma, stringere il pugno, parlare piano o portarsi appresso un metronomo. Sì certo, anche. Ma non è questo il punto. La soluzione sei tu, che andrai in giro balbettando le tue verità a chi vorrà ascoltarle e aspettarle: un uditorio autoselezionato di persone che abbiano generosità e curiosità di ascoltare e che siano così piene d’amore da non fare più caso alle tue consonanti superflue o alle tue vocali troppo lunghe. Trovalo, questo uditorio, e ripagalo dicendo loro qualcosa che valga la pena aspettare. E’ questa la soluzione, cara me: qualcosa da dire e qualcuno a cui dirlo. E poi non temere, le cose importanti, quelle che fanno andare avanti la vita (“grazie”, “mi dispiace”, “ti voglio bene”, “sparisci”) quelle le dirai sempre dritte, tutto d’un fiato.

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