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La maternità e il congelamento

Annalisa De Simone

Trentasette anni, nuda dalla pancia in giù, penso a quello che avevo paura di sapere e di volere

Un giorno, l’estate scorsa, in riva al mare ho visto una donna correre verso di me. L’ho riconosciuta quando era ormai a pochi passi, non la incontravo da anni. Aveva il pancione, fasciato da un costume intero, e le mani che lo carezzavano di continuo. Mi ha detto che, senza averlo previsto, si è accorta di un ritardo e puf... era incinta. Non sono certa della sua età, quarantasei o quarantasette anni, ma sono certa di questa parola: puf. Con uno schiocco di dita.

 

E così l’altra mattina, nella stanza della ginecologa, ho pensato a lei. Faceva caldo, sentivo i piedi scoppiare da dentro i sandali, e dalla finestra non si intravedeva neanche un pezzo di blu. Sulla scrivania c’era un volantino con l’immagine di una donna e un neonato. Si guardavano. Dentro il volantino c’erano i grafici di fertilità. Ho chiesto informazioni sul congelamento degli ovuli con la voce stranamente ferma, che si è incrinata quando la dottoressa mi ha domandato quanti anni avessi.

 

Trentasette, il limite consigliato per sottoporre gli ovociti a stimolazione ormonale. Voltando pagina, sul volantino, ho visto l’elenco degli esami preoperatori, una serie di sigle evidenziate in nero, minacciose. In Italia, mi è stato detto, la crioconservazione degli ovociti è permessa solo a donne sottoposte a terapia oncologica. In Italia, è stato aggiunto, la sanità privata permette di aggirare questa regola. Per la prima volta dall’inizio dell’epidemia, il fatto di indossare una mascherina a coprire il naso e la bocca mi ha fatto sentire più protetta. Davanti alle sigle minacciose e a termini che leggevo per la prima volta – dicasi primipara attempata una donna incinta in età biologica avanzata, sottoposta all’incidenza di possibili alterazioni cromosomiche nel feto... – mi mordicchiavo le labbra per impedirmi di piangere. Mi sentivo sbagliata e imprecisa. Non all’altezza. E poi c’era questa sensazione concentrata in pancia... mi sentivo in colpa? In colpa per essere arrivata lì, di fronte alla ginecologa, a trentasette anni, senza un compagno e senza un progetto. La dottoressa aveva occhi vigili, i capelli legati in una coda, sembrava risolta e felice di sé. Ha indicato il grafico: fra i trentasette e i trentanove anni, il successo è quantificato nel trenta per cento di possibilità. Da sotto la mascherina, ho ripreso a mordicchiare le labbra. Se me lo avesse chiesto, avrei detto a quella donna tutto di me senza mentire su niente.

 

Da anni, dottoressa, trascino nella borsa un articolo di giornale: posticipa la tua maternità con le migliori garanzie!, e ancora non trovo il tempo di leggerlo; da anni, ogni volta in cui sono costretta alla domanda: non vuoi un figlio? atteggio il viso a un’imperscrutabile serietà, provando a cavarmela con un: sai il lavoro, l’indipendenza, ma avvertendo tutta l’insulsaggine di questa frase; avevo un compagno, dottoressa, che si rifiutava di affrontare l’argomento; e ora che sono qui, davanti a lei, mi sento sull’orlo di una scoperta catastrofica. Sul lettino, nuda dalla pancia in giù, divarico le gambe con le ginocchia che tremano. Il terrore che i miei follicoli non siano abbastanza numerosi, abbastanza buoni, o affidabili, o che a non essere affidabile sia io, che ho mentito sul desiderio di un figlio per paura di perdere l’uomo che amavo. Mentre mi rivesto, vorrei che qualcuno avesse usato le parole della dottoressa quando ero più giovane. Mi dice: se decidesse di congelare gli ovuli, si concederà una garanzia in più. E ancora: sta facendo qualcosa per lei, ne sia fiera. Di nuovo, dottoressa, non posso fare a meno di pensare a quella donna, la mia amica in riva al mare. Mi ha raccontato di essere rimasta incinta con un puf – e forse è stato così, perché a quarantasette anni non è impossibile, ma allora perché quella sensazione di impostura, come il peso di un tradimento?

 

Abbiamo imparato a scaldarci con chi pretende di parlare per noi, e di noi, ci sdegnamo e diventiamo furiose con gli uomini che non possono sapere ma spiegano, che non possono provare ma illustrano, eppure di fronte un tema così nostro, come la fertilità, l’inesorabile invecchiamento degli ovuli che ci portiamo in pancia, resiste una forma di pudore, un tabù. Perché? Dottoressa, a settembre, camminerò lungo il viale che conduce all’ingresso, sotto la chioma degli stessi tigli. Mi infilerete un ago nella vena e uno più grande nella vagina. Ecco che gli ovociti vengono immersi dentro una soluzione al saccarosio. In un tubo chiamato “paillettes” precipitano nell’azoto liquido, pochi secondi e si congelano senza che si formi del ghiaccio. A settembre, dottoressa, mi sveglierò in una stanza che farò fatica a riconoscere. E non so nulla di come andrà, ma voglio pensare che, nel torpore dell’anestesia, aprirò gli occhi e mi scoprirò felice di avere trovato il tempo, finalmente, e il coraggio. Di farlo e di scriverlo.

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