La seconda occasione

Michele Neri

Pensare di fare del bene non basta. Ritrovare la speranza nelle vite e nei bisogni degli altri: una famiglia

Dopo aver letto anni fa un saggio di Charles D’Ambrosio nell’antologia Perdersi, e che mi aveva regalato illuminanti descrizioni della quotidianità dei bambini ospiti in un orfanotrofio russo, colpito da quel cercarsi tra loro senza difendere i propri spazi e che li portava ad ammassarsi, “usando come cuscino la pancia dell’altro”, un amore che si diffondeva per vie orizzontali, senza consumarlo “in un futuro, né in un passato solitario e rimpianto”, volevo di più. Desideravo approfondire quella visione dell’adattarsi dell’amore nel rifiuto, in situazioni estreme, perché si era rivelato un faro preciso rivolto su chi non è stato abbandonato e magari vive insieme con figli sui quali pensa d’investire il proprio amore e può contare su un altro genitore con cui dividere progetti. Era stato il presagio di una frontiera spaurente e in cui s’incontrano offerta e richiesta d’affetto, senza spiegazioni su come l’una possa soddisfare la seconda, e su quanto, nella ricerca di dare, sia in gioco più la propria sopravvivenza che quella del bambino e con il sospetto che questo dislivello fosse implicito in ogni relazione.

 

E poi ho scoperto Kolja (nottetempo) secondo romanzo di Giulia Corsalini vincitrice, con La lettrice di CČechov, del premio Mondello e SuperMondello. Scritto dalla voce di Marcello, ricercatore universitario quarantenne, abitudinario e fiaccato, separato e senza figli da Natalia, disillusa aspirante scrittrice, è la storia del loro parziale ritorno in coppia per accogliere, durante l’estate e nell’ex casa comune di una cittadina adriatica, tre orfani sociali (con genitori noti ma inadatti a prendersene cura) ucraini e offrire loro una vacanza di risanamento. Sono i fratellini Katja, piccola, fatta di una materia plasmabile e Kolja, irrequieto, oligofrenico, delicato; la terza è la più grande Nataša, già invischiata nel risentimento adolescenziale e che rivolge a chi tenti di aiutarla.

 

E’ Natalia a sorprendere Marcello, invitandolo, dopo anni di silenzio, a condividere un’estate per garantire ai tre orfani la necessaria ossatura di una famiglia. Seguono bagni, abbuffate e feste in un’estate italiana all’insegna del locale come ci siamo abituati a considerare questi mesi del 2020. Katja è semplice da amare: saranno però i maggiori, la scontrosa Nataša e il pericolante Kolja, a creare l’imprevisto emotivo. In una coppia che aveva congelato ogni sforzo a favore dell’altro per darsi alle proprie ricerche, la fine delle vacanze e della vita con i ragazzini, crea, soprattutto in Marcello, la chiara visione della sterile abitudine a se stesso e dell’opposta dolcezza nel riconoscersi importante per qualcuno. E questa squassante intensità emotiva al momento della partenza dei bambini per il loro internat ucraino, Marcello la rivolge non solo ai tre ma anche alla più distante Natalia, di cui ora rivaluta le velleità letterarie, un tempo disprezzate. Marcello sogna di adottarli, Natalia lo riporta alla realtà, sono separati; forse lei ha un altro e lui bada solo alla letteratura latina. Eppure. Torna l’estate, si ritrovano in quattro, Kolja è scomparso e in Ucraina la situazione degli orfani è resa più drammatica dalla guerra del Donbass. Marcello insiste e fa intuire a Natalia che la loro “lunga attesa della felicità (...) sia ancora un preludio”. Andranno a Kiev per trovare Kolja, indispensabile mattone, con il suo corpo “di ragno... il petto sporgente da fringuello”, di una seconda intesa familiare.

 

In questo bel romanzo tenero e confidenziale, si riesce ad andare a fondo delle intuizioni trovate nelle pagine di D’Ambrosio. Pensare di fare del bene, rendere felice qualcuno non basta, perché puntare su un progetto che riguardi l’altro, è credere a un nulla in cui sopravvivano i propri sogni, scommettere su un tempo che non è proprio. Se vuoi salvare qualcuno, non solo devi privarti di confini “orizzontali”, non puoi nemmeno immaginare un futuro quando c’è chi ha bisogno di un presente; ha ragione Marcello che, dopo aver trovato finalmente Kolja, urla, ubriaco, a Natalia: “Volevo dirti che non abbiamo più tempo; la nostra storia, che ci ha tormentati tanto, sta già finendo; il passato sta finendo; e da tanto, ormai, la nostra fiducia è debole. Ma per i nostri ragazzi noi dobbiamo ritrovare una condizione permanente di speranza”. Ecco, Kolja spiega bene che, per amare un figlio e forse un uomo, una donna, occorre abbandonare ogni illusione sul tempo, così come sono obbligati i bambini nell’orfanotrofio; è negare il tempo come fredda proprietà, a dare il diritto di guardare in faccia un’innocenza così viva.

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