Aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo (Foto LaPresse)

Le parole di Scarantino meriterebbero più attenzione dei silenzi del Cav.

Ermes Antonucci

Sulla decisione di Berlusconi di avvalersi della facoltà di non rispondere si moltiplicheranno letture immaginifiche, mentre la stampa ignora le intercettazioni tra il falso pentito e i pm Palma e Petralia

Roma. C’è voluta la presenza dell’ex premier Silvio Berlusconi, citato come testimone dalla difesa di Marcello Dell’Utri, per spingere i giornalisti a riempire di nuovo l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, dove si sta celebrando il processo di appello sulla cosiddetta trattativa stato-mafia. Chi sperava in colpi di scena, però, è rimasto deluso. Come era prevedibile Berlusconi ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere.

 

Ciò che è certo è che il rifiuto del Cav. (che ha anche negato il permesso di farsi riprendere e fotografare in aula) non fermerà le illazioni del fronte dell’antimafia editoriale, che attendeva con ansia la prima discesa dell’ex premier nell’aula bunker che fu costruita per il maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E’ prevedibile che sulla decisione di Berlusconi si moltiplicheranno letture immaginifiche e persino metafore sull’omertà di stampo mafioso, ignorando il fatto che l’ex premier ha semplicemente esercitato un suo diritto previsto dall’ordinamento. Il leader di Forza Italia, infatti, non era stato citato come semplice testimone, bensì come “teste assistito”, status determinato dal fatto che a suo carico pende un’inchiesta a Firenze su fatti “probatoriamente collegati” a quelli oggetto del processo sulla Trattativa. Berlusconi è indagato nientedimeno che per le stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze, per l’attentato in via Fauro a Maurizio Costanzo e per quello del 1994 a Formello al pentito Salvatore Contorno. Qualora avesse deciso di rispondere alle domande del collegio giudicante, Berlusconi avrebbe assunto lo status di testimone e quindi sarebbe stato costretto a rispondere a eventuali domande che avrebbero comportato dichiarazioni auto-indizianti. Consigliato dai suoi legali, l’avvocato Niccolò Ghedini e il professore Franco Coppi, Berlusconi ha così deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere.

 

Il Cav. era stato chiamato dai giudici, su richiesta dei legali di Dell’Utri, a riferire “quanto sa a proposito delle minacce mafiose subite dal governo da lui presieduto nel 1994 mentre era premier”. Minacce che, a detta della sentenza del processo di primo grado sulla trattativa (in cui Dell’Utri è stato condannato a 12 anni di reclusione), sarebbero provenute proprio dall’ex senatore di Forza Italia, anche se le motivazioni della sentenza sembrano basarsi più su supposizioni che su fatti reali: “Se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.

 

Pur di resuscitare una notizia che non esiste, gli organi di informazione hanno cominciato a descrivere la decisione di Berlusconi come un “tradimento” nei confronti dell’amico Dell’Utri. Ed è un vero peccato che un simile impegno e una così alta attenzione non vengano riposti dai giornalisti nel riportare al pubblico altre notizie, ben più concrete e anche di un certo rilievo sul piano della lotta alla mafia. Pochi giorni fa, ad esempio, è stato rivelato il contenuto parziale dei brogliacci contenenti le intercettazioni realizzate nel 1995 nei confronti di Vincenzo Scarantino, il falso pentito al centro del grande depistaggio sull’inchiesta per la strage di Via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino. Secondo gli accertamenti svolti dalla Direzione investigativa antimafia, sarebbero “verosimilmente” i magistrati Annamaria Palma e Carmelo Petralia i destinatari delle telefonate fatte dal falso pentito nella primavera del 1995, mentre si trovava a San Bartolomeo al Mare, in Liguria, dopo avere iniziato a collaborare con i magistrati sulla strage. Palma e Petralia, all’epoca pm a Caltanissetta, sono indagati per calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Non risulta indagato Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, anch’egli componente del pool che diede retta alle rivelazioni di Scarantino che poi portarono a condannare ingiustamente sette imputati.

 

Non è tutto. Nella relazione la Dia sottolinea che diverse telefonate di Scarantino non furono mai registrate dagli investigatori. Anche in questo caso, le utenze dei destinatari apparterrebbero ai pm che stavano indagando sulla strage di Via D’Amelio, come è stato rivelato da un poliziotto nel processo sul depistaggio in corso a Caltanissetta.