L'arresto di Giovanni Brusca (foto LaPresse)

I pentiticchi

Riccardo Lo Verso

Sempre meno utili e affidabili, sempre più legati a una mafietta di borgata. Ecco chi sono in Sicilia i nuovi collaboratori di giustizia

Non lo voleva un pentito per marito. Rosalinda, giovane moglie di Giovanni Lucchese e figlia di don Ciccio Tagliavia, boss all’ergastolo per la strage di via D’Amelio e per le bombe del 1993, se ne stava sul divano a piangere mentre i poliziotti le offrivano protezione. La mamma, e suocera del neo collaboratore di giustizia, donna energica, prese in mano la situazione. Quei signori in divisa dovevano girare i tacchi e andarsene. E i vestiti di Giovanni rimasto in cella senza neppure una paio di mutande pulite? I poliziotti erano andati lì anche per ritirare gli effetti personali del neo collaboratore. “Occupatevene voi”, tagliò corto la donna. E gli orologi? Neppure quelli. Lucchese ci teneva tanto alla sua lussuosa collezione. Voleva tenerla con sé, anche in carcere. Il diniego della moglie è stata una batosta per il già traballante Giovanni, che tutti a Brancaccio chiamano Johnny, aggiungendo un tocco di gangsterismo alle sue gesta criminali. E così alla fine si è pentito di essersi pentito. Senza il consenso della moglie si è sentito smarrito. La verità è che prima ancora di accettare il pentimento di chicchessia bisognerebbe parlare con le femmine di casa. Giusto per non perdere tempo.

 

Lucchese è un collaboratore di giustizia in meno nell’affollatissimo libro paga dello stato. Mica si vuole disconoscere l’impatto, che resta decisivo, dei pentiti nella lotta alla mafia, ma sarebbe il caso di stringere un po’ le maglie, fin troppo larghe, del programma di protezione che oggi è garantito a circa 1.300 persone. Poche decine quelle che negli anni sono state espulse. Una macchina complessa da gestire, sia dal punto di vista economico che organizzativo, che finisce per scontentare gli stessi collaboratori. Non mancano, infatti, le proteste di chi si sente abbandonato dallo stato.

Davvero tutti i pentiti sono utili? Lucchese è stato “bocciato” alla sua prima uscita ufficiale. Al giudice per l’udienza preliminare che doveva decidere se rinviarlo a giudizio i suoi verbali sono apparsi superflui. Non servivano per valutare la posizione di Lucchese né per gli altri indagati arrestati in un recente blitz della Squadra mobile. A cominciare dal fratello della giovane moglie che piangeva seduta sul divano, e cioè Pietro Tagliavia, ultimo reggente del mandamento di Brancaccio che fu il regno dei fratelli Graviano.

 

Il programma di protezione oggi è garantito a 1.300 persone. Non mancano le proteste di chi si sente abbandonato dallo stato

Insomma, il pentimento di Lucchese era ininfluente. E dire che si era ancora all’abc della sua collaborazione. Il racconto era iniziato da lontano che più lontano non si può, dallo zio Giuseppe Lucchese, lo spietato killer noto alle cronache come Lucchiseddu, che nel 1987 aveva ammazzato la madre del collaboratore, quando quest’ultimo era ancora un ragazzino. Stringi stringi, nei verbali che ha avuto il tempo di riempire prima della marcia indietro Johnny parlava “per sentito dire”. Lui per primo, cresciuto a pane e mafia dal papà Nino, oggi ergastolano, si è reso conto che per darsi un tono gli serviva rimestare nel passato. Il presente d’altra parte si concretizzava in ricordi vaghi, popolati di “persone che, presumo (proprio così, il pentito presumeva) sono loro che stanno portando avanti queste cose”. Roba di second’ordine, “tipo le feste rionali che ci sono i cantanti e ci sono pure quelli che vendono la birra... ognuno deve dare soldi. E’ un pizzo... si mette là e si fa dare trenta euro l’uno, li prende e li porta a chi li deve portare”. La mafia che regola la vita delle borgate decide il nome del cantante neomelodico che deve salire sul palco e regola il traffico degli ambulanti abusivi che vendono le bibite. Niente crimini e misteri, ma mafietta di borgata. Merito di pubblici ministeri e investigatori che non danno tregua ai clan mafiosi. I nuovi capi non hanno il tempo di essere nominati che finiscono già in carcere. Non si dà loro lo spazio necessario per diventare pericolosi.

 

I verbali di Giovanni Lucchese sono apparsi superflui. Non servivano per valutare lui né gli altri indagati arrestati in un recente blitz

Il dietrofront di Lucchese ha tolto probabilmente i magistrati dall’imbarazzo di doverlo scaricare quando ormai sarebbe già stato ammesso nel programma di protezione. Nel frattempo, questo è sicuro, gli stessi magistrati avrebbero perso tempo e risorse per riscontrare i suoi racconti con la speranza che almeno non venissero infarciti di fantasie. Perché accade spesso che il pentito prenda per mano i suoi interlocutori e li faccia salire sulla giostra. L’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino, ad esempio, li condusse fino a Manhattan, in un appartamento sulla Quinta Strada. Dentro una cassaforte doveva esserci un hard disk con alcune recenti fotografie di Matteo Messina Denaro di cui Tuzzolino sosteneva di essere il compare. Ve l’immaginate il latitante dei latitanti che si fa fotografare con l’amico? Della serie, un selfie con l’inafferrabile padrino corleonese. Nessuna traccia dell’hard disk. Le sue dichiarazioni hanno finito per produrre una raffica di denunce per calunnia. Tuzzolino, infatti, ha alzato il tiro coinvolgendo politici e burocrati nel cerchio dantesco di mafia e massoneria, un sempreverde che non ha perso il suo appeal.

 

Per calunnia è stato incriminato e condannato anche un altro campione delle patacche, Massimo Ciancimino. Per anni se n’è andato in giro preso per mano dai pubblici ministeri a parlare del signor Franco, il misterioso agente dei servizi segreti in combutta con i boss e pedina della trattativa Stato-mafia. Lo ha riconosciuto e disconosciuto mille volte, fino al colpo di teatro conclusivo. “E’ lui il signor Franco”, disse davanti alle immagini che passavano in tivvù di una cerimonia ufficiale indicando Ugo Zampetti, segretario generale del Quirinale e della Camera dei deputati.

 

Francesco Colletti e Filippo Bisconti: i carabinieri li piazzano nella cupola del dopo Riina. La trappola delle patacche

Il 2018 si è concluso e si contano una decina di nuovi pentiti tra le file della Cosa nostra palermitana. Alcuni sono decisivi per la logica processuale della convergenza del molteplice, quando i racconti individualizzanti di più collaboratori costituiscono una prova. Senza i pentiti non si sarebbe fatta luce su una serie di omicidi commessi una decina di anni fa nella zona di Partinico. Vittime di una guerra fra cosche dei quali non tutti i corpi sono stati restituiti ai familiari. Ce ne sono altri, di pentiti, che aggiungono poco o nulla alle ricostruzioni dell’accusa. C’è da chiedersi se la premialità a strascico sia utile alla causa o piuttosto servirebbe maggiore rigidità nell’approccio e nella gestione dei collaboratori. Collaboratori che, ma questa è una caratteristica mutuata dal passato, tendono a sentirsi i dominus delle indagini. Fanno un respiro profondo, si gonfiano il petto e le sparano grosse. Perdere credibilità in un processo significa metterne a rischio un altro. I primi a saperlo sono gli avvocati. Francesco Chiarello, mafioso della famiglia del Borgo Vecchio, popolare quartiere palermitano a due passi dalle scintillanti vetrine del viale della Libertà, ha fatto riaprire l’inchiesta sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. Il povero penalista fu aggredito a colpi di bastone, una sera di otto anni fa, a due passi dal Palazzo di giustizia. Alcuni picciotti di mafia l’avevano fatta franca nella prima inchiesta chiusa con l’archiviazione. Poi, arrivarono le dichiarazioni di Chiarello. I giudici lo hanno ritenuto attendibile nella ricostruzione dell’omicidio, ma Chiarello si porta dietro alcuni errori del passato. Ad ogni tentennamento, magari frutto dell’inesorabile trascorrere degli anni, qualcuno ricorda che il pentito ha dato prova di una certa propensione a ricordare anche ciò che non è accaduto.

 

Accade spesso che il pentito prenda per mano gli interlocutori e li faccia salire sulla giostra. Fino a una cassaforte a Manhattan

Come quando giurò di avere assistito, nel 2002, al massacro di due uomini, nella piazza del Borgo Vecchio. Parlò di coltellacci da cucina e ferite che “ci si poteva passare dentro un braccio”. Lo smentirono i dati dell’autopsia: le ferite erano profondissime, ma tutt’altro che larghe. Si spinse a raccontare di avere raccolto l’ultima e sofferta frase di una delle vittime – “non è giusto”, avrebbe detto prima di spirare – salvo poi cambiare versione. Le sue incertezze hanno prestato il fianco a una nuova collaborazione, quella di Antonino Siragusa, pure lui imputato per l’omicidio, che ha tirato fuori una verità che fa a pugni con la ricostruzione di Chiarello. I magistrati non credono a Siragusa, ma il suo pentimento se non destabilizza alcune certezze quanto meno crea confusione. A chi giova? Sarebbe bastato che Chiarello si limitasse a raccontare ciò che realmente ha visto, ma i nuovi pentiti sono fatti così. Non hanno il senso della continenza. Come Giuseppe Tantillo, pure lui di Borgo Vecchio, che di giorno andava in aula ad accusare i suoi sodali e di sera faceva le dirette Facebook per attaccare i parenti “che ce li manda il Signore, non ce li siamo scelti”, e “si divertono con i miei soldi”. E mentre, assecondato dalla compagna che gli stava a fianco, pronunciava frasi incomprensibili persino a chi è abituato allo slang palermitano, si leccava le dita con cui teneva un gelato. Leccava e minacciava: “Non sono morto e sono pure libero”. Morto no, ma collaboratore di giustizia sì. Il video scaricato dal social network è entrato nel processo. Le immagini stanno lì, nel fascicolo, a testimoniare l’esistenza di una mafia che ha aggiunto alle sue storiche e riprovevoli caratteristiche anche la volgarità. Che di certo è il male minore, ma è il segno dei tempi.

 

Ora ci sono due nuovi collaboratori: Francesco Colletti e Filippo Bisconti, capimafia di Villabate e Belmonte Mezzagno. I carabinieri del Nucleo investigativo li piazzano nella cupola del dopo Riina. Loro sì che hanno avuto uno spessore nella nuova mafia che prova a rifarsi sotto, azzoppata com’è dal lavoro delle forze dell’ordine. Specie il secondo che, guarda caso, proviene dal passato di Cosa nostra, quando i pentiti si chiamavano Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.

Altra mafia, altri collaboratori. Ma ogni stagione ha le sue spine. Anche i migliori investigatori sono caduti nella trappola delle patacche che più patacche non si può. Quelle di Vincenzo Scarantino sulle strage di via D’Amelio sono una vergogna di stato, prima ancora che la prova del depistaggio. Se chi doveva e poteva si fosse accorto subito che il picciotto della Guadagna non era il boss che si autodefiniva la verità sarebbe emersa subito. Eppure oggi si tende a giustificare una parte della magistratura, quella intoccabile che non sbaglia mai, perché il tema del depistaggio è molto più affascinante e utile alla causa dell’antimafia.

 

Un’antimafia che ha coccolato i pentiti, perdonando loro l’abitudine di rendere dichiarazioni a rate di cui Giovanni Brusca era maestro. “La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”, diceva il boss palermitano Salvatore Cancemi che ha finito per fare scuola tra i pentiti. Il giudice Marina Petruzzella, che ha assolto in primo grado l’ex ministro democristiano Calogero Mannino nello stralcio del processo Trattativa schiacciato mediaticamente dalle successive condanne in Corte di Assise, passò in rassegna tutti gli interrogatori di Brusca. Concluse che a un certo punto il boss che uccise il piccolo Giuseppe Di Matteo aveva iniziato “ad arricchire i suoi resoconti di elementi eclatanti, congetture e sintesi, anche confuse e di difficile comprensione, anche per gli stessi inquirenti che lo interrogavano”. “Colpa dell’eccesso di interrogatori” che in Brusca “determinò ad un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenza a reputarsi depositario di molte verità non rivelate e a non distinguere più le opinioni dai fatti da lui conosciuti”. A Brusca sono stati perdonati vecchi e più recenti peccati. Ha goduto negli anni anche di qualche permesso premio. La scorsa estate avrebbe voluto che gli si concedesse di finire di scontare ai domiciliare la sua pena che scadrà nel 2022. La collaborazione gli ha evitato l’ergastolo. Secondo la Cassazione, basta e avanza, perché il “ravvedimento” non può essere presunto “sulla base della sola collaborazione” e dell’assenza di attuali collegamenti con la mafia, ma “richiede ulteriori, specifici, elementi” e “una maggiore attenzione verso le vittime”.

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