L'arresto di Settimo Mineo (foto LaPresse)

Un'altra mafia

Riccardo Lo Verso

Boss all’ergastolo, crollati gli omicidi: lo Stato ha sconfitto la vecchia Cosa nostra. Ma Palermo, malata nelle viscere, è ancora sotto scacco

La matematica non è un’opinione. Neppure quando c’è di mezzo la mafia. Lo Stato ha sconfitto Cosa nostra. Punto. I numeri non possono essere smentiti. Per fortuna ci sono le statistiche. Nel 1982, in piena guerra di mafia, si contarono più di 200 morti. Il 1991 è l’annus horribilis: oltre 700 morti. Due anni dopo sarebbero iniziate le stragi.

 

A un certo punto si dovette fare una distinzione. Non tutti gli omicidi erano uguali. C’erano i delitti con cui i boss in ascesa si sbarazzavano dei nemici interni all’organizzazione, quelli dei nemici arrivati dall’esterno – magistrati e uomini in divisa –, i delitti politici e quelli commessi per la loro valenza simbolica. Come l’esecuzione di don Pino Puglisi che predicava fra i giovani di Brancaccio. Era il 15 settembre 1993 e fu l’ultimo omicidio cosiddetto eccellente. Da allora, per fortuna, pistole e kalashnikov hanno smesso di spargere sangue per le strade. Solo eliminazioni chirurgiche di mafiosi caduti in disgrazia.

 

Il 1991 è l’annus horribilis: oltre 700 morti. Negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017, sono stati commessi appena otto omicidi

Negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017, sono stati commessi appena otto omicidi. Sette volte il grilletto è stato premuto per regolare faide interne o eliminare concorrenti negli affari della droga. Per l’ottava vittima è stato scelto di usare un bastone. Il bastone che picchiò a morte l’avvocato Enzo Fragalà. Per l’assassino del penalista, avvenuto nel 2010, si sta celebrando un processo. Anche quando le statistiche riguardano le aule dei Tribunali i dati stanno lì a dimostrare che lo Stato ha vinto: dal 1993 al 2006 sono stati inflitti oltre 450 ergastoli. Poi, si è smesso di uccidere e il carcere a vita, ancora oggi, arriva per vecchi omicidi svelati dai nuovi pentiti. Almeno coloro che hanno ancora qualcosa di significativo da raccontare e non quelli che fanno gli show sui social network. Nella mafia di oggi accade anche questo, che un uomo d’onore faccia una diretta Facebook per vomitare insulti.

 

Alla fine i numeri hanno confermato la tesi di chi, come lo storico Salvatore Lupo, ci ha messo un po’ per fare passare la tesi che la mafia di un tempo è stata sconfitta. A eliminare i padrini palermitani – Bontade, Inzerillo, Riccobono – hanno provveduto i corleonesi, scesi dalle montagne con i peri ’ncritati agli ordini di Totò Riina. A sbarazzarsi dei corleonesi ci ha pensato lo Stato. I boss sono tutti al 41 bis. Alcuni, come lo stesso Rina e Bernardo Provenzano, al carcere duro ci sono rimati fino al loro ultimo respiro. Resta latitante Matteo Messina Denaro, un fantasma.

 

Qualche settimana fa i carabinieri hanno dato un volto all’ultimo erede di Totò ’u curtu, Settimo Mineo, che la domenica prendeva posto sui banchi della chiesa di San Saverio, all’Albergheria. Puntuale e ben vestito. Al boss che ha fatto in tempo a festeggiare da uomo libero gli 80 anni serviva un’immagine nuova dopo la lunga parentesi carceraria. E invece di nuovo c’era solo la cupola di Cosa nostra che era stato chiamato a dirigere da presidente anziano.

 

Il capoluogo siciliano diventa ogni giorno più miserabile. Quel che conta è cercare da subito un nuovo capo da incoronare

L’immagine di buon cristiano era solo di facciata, nulla a che vedere con il paranoico e distorto rapporto con la fede dei vecchi padrini. Anche questo è il segno dei tempi. Di una mafia che non c’è più. Sconfitta dallo Stato. Non muovere da questa premessa sarebbe ingeneroso per tutti coloro che hanno perso la vita. Morti ammazzati.

 

Mineo, capomafia di Pagliarelli, in una tarda mattina di fine maggio scorso, ha convocato la riunione della Cupola, ferma dal 1993, anno dell’arresto di Riina. Prima e dopo si arrabattava per trovare i soldi da dare alle famiglie dei carcerati. Mica è un volto nuovo il suo. C’era già ai tempi del maxi processo. Come tanti altri ha trascorso parte della vita in carcere, che nel suo caso ha visto fallire ogni proposito rieducativo. Non è certo uno che poteva passare inosservato. Nella barca di Cosa nostra che cola a picco era semmai uno di quei tronchi stagionati che restano a galla più a lungo di altri. Prima o poi, però, marciscono.

 

Mineo ha presieduto la riunione in cui c’erano “persone vecchie” e pure “gente di paese”. Individuati i capi di quattro mandamenti

E così Mineo ha presieduto la “bella riunione” in cui c’erano “persone vecchie” e pure “gente di paese”. Sono stati finora individuati i capi di quattro mandamenti, mentre gli altri, c’è da giurarci, hanno i giorni contati. Ci sono centinaia di persone che a cascata saranno arrestate nei prossimi mesi. Lasceranno il posto a chi è stato scarcerato e andrà a infoltire, solo momentaneamente, l’esercito degli irredimibili. Li condannano, scontano la pena, escono dal carcere, e li arrestano di nuovo: è la giostra di Cosa nostra. Nel solo anno che sta per finire sono state arrestate più di 200 persone per mafia e altrettante sono state giudicate colpevoli. Un sottobosco maleodorante dove i boss si gonfiano il petto perché il cantante neomelodico napoletano gli ha rivolto un saluto dal palco della festa di quartiere.

 

Gregorio Di Giovanni, capo mandamento di Porta Nuova – quello che era il regno di Pippo Calò, per intenderci – e pure lui membro della nuova Commissione, si sbracciava per stabilire chi dovesse addobbare con i fiori la parrocchia della Madonna di Lourdes, a pochi passi dal castello della Zisa, in occasione della processione del Venerdì santo. Processione che magari si sarà pure fermata sotto casa del mammasantissima del quartiere con uno di quegli inchini che tanto indignano, ma che andrebbero presi per quel che sono: immagini folcloristiche di una mafia che galleggia aggrappata alla simbologia e al mito del passato. Nessuna giustificazione, a scanso di equivoci. E nessuna sottovalutazione perché la mafia, questa mafia, continua a tenere sotto scacco intere zone della città.

 

E non si tratta solo del pizzo che i commercianti pagano per lo più in silenzio, della droga spacciata per le strade, delle agenzie di scommesse on line che spuntano come funghi e ripuliscono il denaro sporco. I boss regolano la quotidianità delle borgate: autorizzano l’apertura dei nuovi negozi, quando non ne sono loro stessi i proprietari, per evitare la concorrenza a chi paga la tassa di Cosa nostra, recuperano crediti e merce rubata, danno il via libera all’abusivo che vuole piazzare una bancarella di frutta verdura.

 

Ci si dovrebbe chiedere dove finiscono i loro meriti (?) criminali e iniziano i demeriti altrui. Ed ecco la più grande delle colpe di oggi. Lo Stato che ha sconfitto la mafia nella sua peggiore declinazione, quella corleonese, che ha superato la stagione delle bombe e del terrorismo, sta perdendo la battaglia sociale. E’ nella miseria che la mafiosità di una città si rivela in tutta la sua drammaticità. Palermo è malata nelle viscere. Non ci può essere altra spiegazione di fronte alla questua registrata dalle microspie dei carabinieri che hanno stoppato sul nascere il tentativo di Mineo di serrare i ranghi.

 

Il pizzo, la droga, il recupero crediti, le agenzie di scommesse online che spuntano come funghi e ripuliscono il denaro sporco

Questa mafia che arranca, però, è ancora seduttiva. Di manovalanza se ne trova parecchia e a buon mercato. I nuovi picciotti si accontentano di poche centinaia di euro al mese. E’ la seduzione del male che andrebbe analizzata. I carabinieri fanno il loro mestiere, e pure bene, ma oltre la repressione c’è il vuoto. Una distrazione collettiva e complice che impedisce la fine della mafia anche nella sua odierna configurazione.

 

Manca poco, pochissimo per liberarci della Cosa nostra dei rimasugli, ma vuoi mettere l’epopea dei corleonesi. Gli sforzi degli analisti sono per lo più concentrati sul passato, il dibattito è fermo alla stagione della Trattativa fra i boss e lo Stato che muove l’antimafia editoriale dei giornali e della letteratura di genere. Tenere a mente il passato è cosa buona e giusta, ma oggi appare un’attitudine nostalgica. Sta diventando una gabbia del pensiero, che impedisce l’analisi e la critica dell’oggi. Il rischio è che guardandosi sempre e solo indietro si smarrisca la tensione verso una maggiore consapevolezza del fenomeno che bisogna combattere oggi. Senza consapevolezza, non c’è conoscenza. Invece di prendere atto della vittoria dello Stato si cercano i livelli superiori del potere, centri misteriosi di controllo, si vede nell’inabissamento una precisa strategia dei boss, di quelli ancora liberi che hanno fatto i soldi e li hanno pure ripuliti.

 

Nel frattempo Palermo diventa ogni giorno più miserabile. Quel che conta è cercare da subito un nuovo capo da incoronare. Gli Inzerillo, scampati alla guerra di mafia e scappati in America, sono rientrati da un po’ in città. Vengono dal passato, e già basta questo per evocare suggestioni. E se fossero davvero loro i nuovi capi? Magari, perché Mineo li ha incontrati e i loro nomi sono già inseriti nelle informative. Non possono sfuggire. Nel loro caso non basterà neppure attendere che un boss, come Francesco Colletti di Villabate, uno di quelli che sedevano al tavolo della Commissione, se ne vada in giro convinto che la sua Fiat Panda sia un bunker inviolabile. Ed invece i carabinieri, bravi e attenti, l’avevano riempita di cimici.

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