L'uccisione del bandito Giuliano (foto LaPresse)

Dall'oscura uccisione del bandito Giuliano una lezione di straordinaria attualità

Massimo Bordin

Un breve saggio di Macaluso sulla strage di Portella della ginestra e quell'abbaglio sulla trattativa stato-mafia

Ottima idea quella di Emanuele Macaluso di riproporre, con una ampia e nuova introduzione, un suo breve saggio di vent’anni fa sulla strage di Portella della ginestra. Una storia vecchia, si dirà. Vero. Macaluso però si è accorto che nella ormai antica vicenda della oscura uccisione del bandito Giuliano e tutto ciò che la precedette e seguì c’è una lezione di straordinaria attualità. La strage arriva in un momento, il 1947, in cui lo Stato sta modificando la sua forma, si attendono le elezioni che formeranno il primo parlamento, in Sicilia la mafia è indecisa nella scelta dei nuovi interlocutori politici, poliziotti e carabinieri, trattando con Cosa nostra, ottengono la testa del bandito Giuliano, col quale pure avevano trattato. Ricorda qualcosa di più attuale, non c’è che dire. Per di più il capitolo finale del lungo intrigo vede protagonisti un colonnello e un capitano dei carabinieri. Sostituire Ugo Luca e Antonio Perenze con Mario Mori e Giuseppe De Donno è tentazione troppo forte per chi cerca in una infinita trattativa la chiave del rapporto stato-mafia anche dopo gli anni 70, ma è un abbaglio. Macaluso lo spiega servendosi della sentenza pronunciata dalla corte d’assise di Viterbo nel 1952, che chiuse, per modo di dire, la vicenda. C’è un passaggio fondamentale sul rapporto con i confidenti, nel quale la corte conviene che è impossibile trovarne privi di qualche conto da regolare con la giustizia ma è inammissibile incontrare latitanti condannati all’ergastolo. Vito Ciancimino, quando “tratta” con Mori è ristretto ai domiciliari. Quanto al latitante condannato all’ergastolo, Mori e i suoi catturarono Riina. Vivo. Quegli altri ritirarono un cadavere, come pattuito. Differenze sostanziali.

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