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Caro Di Matteo, no: la storia nazionale non è una storia criminale

Giovanni Fiandaca

Reagire all’infamante etichetta di “negazionisti” rivolta a chi avanza critiche al processo sulla trattativa. I rischi dei magistrati che vestono i panni di storici orecchianti

Che rapporto c’è tra la storia in versione giudiziaria e la storia ricostruita dagli storici di professione? Interrogativi come questo sorgono specie da quando i giudici, in particolare nei processi di criminalità politica o di mafia, hanno cominciato a mostrare una certa tendenza a inquadrare i fatti di causa entro grandi scenari storico-politici, con la pretesa di fare anch’essi storiografia: così finendo non solo col fare concorrenza agli storici di mestiere, ma persino talvolta col contrapporre alle tesi sostenute da questi ultimi proprie (presunte) verità storiografiche. Un esempio ancora recente di questo possibile contrasto di vedute è offerto dal cosiddetto processo-trattativa, insieme con la encomiastica sintesi divulgativa che ne è stata ben presto fatta nel libro-intervista Il patto sporco (ed. Chiarelettere) del pubblico ministero Nino Di Matteo e del giornalista Saverio Lodato.

 

Il magistrato che trasforma in storia un teorema finisce col mettere a rischio la sua credibilità anche come operatore del diritto

Il processo e la sentenza sono davvero riusciti a dimostrare che la trattativa ha improntato di sé la storia italiana? Negativo

Cominciamo dal libro. I due coautori concordano nel biasimare lo storico Salvatore Lupo – autorevolissimo e tradotto in diversi paesi per i suoi fondamentali studi di storia della mafia – non solo per il fatto di non aver condiviso la tesi ispiratrice del processo sulla trattativa, cioè l’idea di un grande complotto politico-istituzionale volto a porre in salvo il potere mafioso nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica: il loro biasimo si spinge addirittura fino allo scherno nel contestargli, altresì, di aver assunto “una chiave di lettura negazionista, anche a costo di rischiare il ridicolo”, confutando che sarebbe stata la mafia insieme con i servizi segreti statunitensi ad organizzare lo sbarco dell’esercito americano in Sicilia nel luglio del 1943 – vale a dire una verità che, secondo Di Matteo, sarebbe stata invece messa da tempo nero su bianco da autorevoli commissioni d’inchiesta americane e da sentenze della magistratura. Orbene, pensa davvero il pubblico ministero Di Matteo di disporre delle conoscenze e degli strumenti critici sul piano storiografico per tacciare di negazionismo ai limiti del ridicolo un esperto storico di mestiere come Salvatore Lupo, che indaga da parecchi anni le relazioni tra la mafia siciliana e quella americana, compulsando con rigore metodologico documenti e archivi? Anziché vestire i panni di storici improvvisati e orecchianti, suscitando oltretutto l’impressione di privilegiare aprioristicamente le tesi più confacenti ai loro teoremi accusatori, i magistrati dovrebbero in realtà limitarsi a esercitare con prudenza cognitiva il loro ruolo: ciò vuol dire che, di fronte a questioni che vedono divisi gli stessi specialisti della materia, non dovrebbero far altro che prendere atto dell’esistenza di visioni divergenti tra gli storici di mestiere. Senza parteggiare, in mancanza di una autonoma e comprovata competenza specifica, per uno degli orientamenti in conflitto. Diversamente, il magistrato finisce col mettere a rischio la sua credibilità professionale anche come operatore del diritto.

 

Più articolati spunti di riflessione sono ricavabili dal processo-trattativa in sé considerato. Mi limito a esplicitarne alcuni, a partire dalla constatazione che delle oltre 5200 pagine della motivazione della sentenza di condanna quelle dedicate a questioni di stretto diritto ammontano a poche decine: a prevalere è, di gran lunga, lo spazio riservato per un verso all’evoluzione storica della mafia siciliana nel corso degli ultimi decenni e, per altro verso, alla ricostruzione – come si legge nella sentenza – di “vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i nostri giorni”. Un assai ambizioso impegno storiografico, dunque, che gli stessi giudici estensori arrivano immodestamente a definire “arduo e quasi titanico”: ciò nella convinzione che la cosiddetta trattativa Stato-mafia segni un momento essenziale per comprendere le dinamiche storico-politiche che si sono sviluppate nel nostro paese negli ultimi decenni. Ma il processo e la sentenza sono davvero riusciti a dimostrare che la trattativa ha improntato di sé la storia italiana con la S maiuscola, trascendendo i limiti di un caso giudiziario di per sé non molto più importante di altri?

 

Sorvolando qui sui punti deboli dell’impianto giuridico del giudizio di condanna (rinvio in proposito a un mio lungo commento in corso di pubblicazione nella Rivista italiana di diritto e procedura penale), e circoscrivendo appunto l’attenzione alla parte ricostruttiva degli eventi storico-politici, quel che non a caso emerge è un approccio storiografico di tipo criminalizzante: cioè una inclinazione pregiudiziale a rileggere la storia e la politica del biennio 1992-94 in una ottica strumentalmente volta ad accreditare l’ipotesi accusatoria di un turpe patto tra vertici politico-istituzionali e vertici mafiosi per restaurare una compromissoria convivenza tra Cosa nostra e lo Stato. Senonché, a dispetto di ogni sforzo dimostrativo da parte della Corte d’assise palermitana, la tesi di un patto ordito da vertici istituzionali rimane un’ipotesi tutt’altro che dimostrata con quel rigore probatorio che ci si dovrebbe attendere da un organo giurisdizionale: in più punti la ricostruzione storica –- come peraltro gli stessi giudici ammettono – si basa infatti soltanto su convergenze di elementi, deduzioni logiche o ipotesi dotate di un certo grado di plausibilità, per cui rimane in ogni caso aperta la possibilità di narrazioni alternative. E la migliore riprova della natura fondamentalmente congetturale di questo tipo di storiografia giudiziaria è, paradossalmente, fornita dallo stesso pubblico ministero-simbolo del processo, cioè proprio Nino Di Matteo: il quale, in più di una intervista rilasciata dopo l’emanazione della sentenza, ha riconosciuto che occorrerebbe un “pentito di Stato” per fare finalmente chiarezza sui vertici istituzionali implicati nella trattativa.

 

Di fronte a questioni che vedono divisi gli specialisti un pm non dovrebbe far altro che prendere atto dell’esistenza di visioni divergenti

Una storia ricostruita in chiave giudiziaria risente della logica intrinseca al processo penale ed è una storia carica di distorsioni

Se è così, siamo allora ben lontani da verità acquisite secondo quella logica probatoria dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” che dovrebbe, secondo lo stesso codice di rito, orientare l’accertamento processuale dei fatti che fondano la responsabilità penale. Così stando le cose, ne deriva dunque che sono a tutt’oggi legittime letture divergenti delle vicende italiane dei primi anni ‘90. Ma prenderne atto rende, appunto, del tutto inammissibile – anche sul piano della deontologia professionale – che il magistrato Di Matteo condivida o assecondi, manifestandolo pubblicamente, l’infamante etichetta di “negazionisti” rivolta a studiosi che avanzano riserve critiche nei confronti del processo- trattativa. E sarebbe il caso anche di prendere una buona volta atto che, tra gli storici di mestiere, non è il solo Salvatore Lupo a disconoscere la centralità della cosiddetta trattativa nella storia italiana dell’ultimo venticinquennio. Consultando la storiografia più recente e qualificata sugli anni dal dopoguerra ad oggi, così come rappresentata ad esempio da autori come Guido Crainz, Giovanni Orsina ed altri, ci si avvede che mai viene presa in considerazione, o soltanto affacciata l’ipotesi che la transizione dalla prima alla seconda Repubblica sia stata fortemente condizionata da occulte alleanze criminali col potere mafioso. Miopia della storiografia professionale o sopravvalutazione della mafia da parte dei giudici-storici?

 

Che possa esserci, in una parte della magistratura penale, una sorta di pregiudizio “mafiocentrico” o “criminocentrico” nell’interpretare la storia politica, con la conseguente tentazione di appiattirla sulla dimensione criminale, vi sono in effetti ragioni per sospettarlo. Infatti una storia ricostruita in chiave giudiziaria risente, inevitabilmente, della logica intrinseca al processo penale: una logica che obbliga a ricondurre a forme di colpevolezza individuale, o di complicità criminosa, dinamiche politiche complesse e ambigue proprio per la molteplicità dei fattori eterogenei che le condizionano. Per cui tali dinamiche trascendono, per incommensurabilità, l’eventuale reato commesso da questo o quell’attore istituzionale. Ma vi è di più. La tentazione di leggere la storia nazionale come storia criminale, già emblematicamente affiorata nel processo del secolo (scorso) a carico di Giulio Andreotti, può ricevere ulteriore impulso (anche inconscio) da una certa propensione di alcuni settori della magistratura ad autoassegnarsi il ruolo di unica istituzione in grado di contrastare la degenerazione della politica e di distinguere, a vantaggio dei cittadini, tra esercizio buono e esercizio cattivo del potere politico. Ma questa pretesa, oltre a esorbitare dalle competenze e dalle capacità di prestazione della giustizia penale, provoca per altro verso effetti distorsivi del pubblico dibattito democratico. Se ad esempio un pubblico ministero dotato di carisma politico-mediatico afferma in televisione che la trattativa è la dimostrazione che la politica e la mafia in Italia sono strettamente compenetrate, non poche persone saranno indotte a credergli proprio perché a dirlo è un magistrato antimafia, in quanto tale accreditato di un superiore potere veritativo. O saranno portate a credergli perché la tesi dello Stato criminale conferma i loro radicati pregiudizi. È evidente che tutto ciò non giova al buon funzionamento del nostro sistema democratico.