Mario Mori (foto LaPresse)

La gogna giustizialista perseguita ancora Mori e De Donno

Ermes Antonucci

Uno dei pubblici ministeri del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia, Vittorio Teresi, invoca la gogna pubblica e l’intervento dello stato etico nei confronti di due suoi ex imputati: “Non possono parlare di legalità”

Roma. Uno dei pubblici ministeri del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia, Vittorio Teresi, invoca la gogna pubblica e l’intervento dello stato etico nei confronti di due suoi ex imputati, spalleggiato dal quotidiano di riferimento del giustizialismo italiano (Il Fatto Quotidiano). Si tratta degli ex vertici del Ros dei Carabinieri, il generale Mario Mori (poi anche direttore del Sisde) e il colonnello Giuseppe De Donno, condannati in primo grado dalla Corte d’assise di Palermo con l’accusa di aver stretto una trattativa con Cosa nostra negli anni delle stragi, attraverso una loro autonoma iniziativa, cioè senza il coinvolgimento di nessun altro esponente delle istituzioni o della classe politica (insomma, più che reato una pazzia).

 

Ma Mori e De Donno sono doppiamente colpevoli, secondo il Fatto (che alla vicenda ha dedicato ben quattro articoli negli ultimi due giorni, tra cui uno del direttore Marco Travaglio), di essersi macchiati di un altro gravissimo crimine, cioè di aver preso la parola in un incontro sulla legalità con gli studenti di una scuola di Avellino, nonostante la loro condanna in primo grado. Motivo per il quale il quotidiano ha invocato persino l’intervento del ministro dell’Istruzione. E non conta che Mori sia vittima di una gogna mediatico-giudiziaria da ormai 25 anni, che sia stato assolto in via definitiva (altro che primo grado) ben due volte dall’accusa di aver aiutato la mafia (lui che i boss, a partire da Totò Riina, li ha arrestati), e che soprattutto la nostra Costituzione preveda che ogni cittadino sia considerato innocente fino a sentenza definitiva (articolo 27). Per Travaglio una persona condannata in primo grado deve essere bandita dalla vita civile del paese. Che poi sarebbe come dire che Travaglio, essendo stato condannato molteplici volte per diffamazione, non dovrebbe più scrivere su un giornale (sarebbe paradossale, no?).

Ma non è tutto. Il Fatto, ricostruendo la vicenda, ha riportato anche una dichiarazione rilasciata a margine dell’incontro con gli studenti da Mario Mori ad alcuni giornalisti locali: “Mi curo per vivere a lungo, perché devo veder morire qualcheduno dei miei nemici”. Una battuta frutto di uno slancio di sincerità da parte di chi, ormai da decenni, è costretto a difendersi dall’accusa più infamante per un servitore dello stato (il tradimento) ed è certo della propria innocenza. Una frase che, peraltro, era già stata espressa in passato da Mori, che ai giornalisti ha aggiunto: “Accetto il giudizio di una Corte di assise e accetto che un pm svolga pienamente il suo lavoro contro di me. Ma non accetto che un pm, dopo il giudizio, continui a parlare di questo argomento, perché la sua non è più una funzione impersonale, ma un qualcosa di personale”.

Ecco allora che il Fatto decide di costruire improvvisamente un caso, distorcendo le parole del generale: “Il messaggio di Mori ai pm: ‘Spero di vederli morti’”. Una vera e propria fake news, visto che Mori in nessun caso ha fatto nomi specifici e che la riflessione sull’accanimento personale di alcuni pm rispondeva a tutt’altra domanda dei giornalisti.

Chiamato in causa (dal giornale, non da Mori), ieri sul Fatto è intervenuto proprio uno dei pm del processo sulla trattativa, Vittorio Teresi, che ha accolto le considerazioni travagliesche e rivendicato a sé le redini dello stato etico: “Che un soggetto sia non colpevole fino a sentenza definitiva non significa che una sentenza di primo grado non possa avere un significato nella storia personale dell’imputato, tanto da rendere inopportuno farlo diventare insegnare di etica pubblica”. Insomma, spetterebbe ai pm stabilire l’“opportunità” per una persona di partecipare alla vita civile del paese (e portare la sua testimonianza ultraquarantennale da uomo delle istituzioni), col risultato paradossale che se l’imputato venisse poi assolto in appello riacquisterebbe improvvisamente la sua dignità di cittadino, sempre per ordine dei magistrati. Una visione singolare dello stato di diritto, e più da repubblica degli ayatollah giudiziari.

Ermes Antonucci