Il primo ministro spagnolo, il socialista Pedro Sànchez (qui sul palco nella notte elettorale) ha smentito il vecchio detto che il popolo punisce sempre chi governa (Foto LaPresse)

L'economia dei miracoli

Stefano Cingolani

Trump resta a galla, in Spagna vince Sánchez: Adam Smith potrebbe spiegare perché. Appunti per l’Italia

Come ha fatto Pedro Sánchez Pérez-Castejón? Il primo ministro spagnolo ha smentito il vecchio detto che il popolo punisce sempre chi governa anche se lui ha governato solo per un anno e con un equilibrio instabile. “È l’economia, stupido”, avrebbe detto James Carville, lo stratega che guidò Bill Clinton alla Casa Bianca nel 1992. Sánchez è un economista e ha visto il prodotto lordo crescere ancora del 2,6 per cento lo scorso anno, dopo tre anni attorno al 3 per cento, record assoluto in Europa, mentre il costo di un debito pubblico sceso stabilmente sotto il 100 per cento del prodotto lordo, è inferiore a un punto percentuale.

 

E come fa, sulla sponda opposta dell’Atlantico, Donald John Trump a stare a galla nei sondaggi nonostante tutto quello che dice, oltre a quello che gli hanno tirato addosso? (sembra che spuntino anche pasticci con Putin nascosti nei conti della Deutsche Bank, in questo Russiagate che non avrà mai fine). Carville direbbe sempre la stessa cosa: “It’s the economy, stupid”. Tanto più negli Stati Uniti. Il boom di Wall Street non si ferma, il prodotto lordo cresce superando addirittura il ritmo del 3 per cento, altro che la stagnazione secolare prevista da quel gufo di Larry Summers. Dazi, tariffe, protezionismo, tutto sembra scivolare come l’acqua sulle penne dell’oca. Gli americani pagano meno tasse e consumano, le fabbriche producono, i redditi crescono e quelli dei ricchi colano giù dall’alto al basso (ricordate la dottrina reaganiana del trickle down?) alla faccia di tutti i collassi della classe media. Ma le cose stanno esattamente così? Non siamo vittime di quello che un vecchio filosofo tedesco chiamava l’economicismo volgare che pretende di spiegare tutto con numeri e quattrini, anche quando sono in gioco idee, valori, desideri, passioni? Tra economia e politica c’è una relazione molto stretta, camminano in parallelo, talvolta s’incrociano, spesso divergono, oppure l’una insegue l’altra, nelle discese ardite e nelle risalite. Ma guai a confonderle, a mescolarle, a pretendere che l’una domini sull’altra. Sia la Spagna di Sánchez sia l’America di Trump lo dimostrano chiaramente.

  

Per la Spagna una remontada impressionante, soprattutto grazie alla flessibilità del mercato del lavoro, dal lato dei salari e dell’impiego

 

La remontada spagnola è davvero impressionante. La grande crisi ha colpito duramente. Tra il 2007 e il 2014 il paese ha perso 3,8 milioni di posti di lavoro con salari reali scesi del 10 per cento e un settore edile letteralmente imploso (dai 20 mila permessi edilizi del marzo 2007 si è crollati ad appena 700 nell’agosto 2013). Secondo molti analisti, proprio la profondità del crollo ha permesso un recupero impressionante, soprattutto grazie alla flessibilità del mercato del lavoro, dal lato dei salari e dell’impiego. L’occupazione iberica è cresciuta di circa il 3 per cento in ciascuno degli ultimi quattro anni, con una creazione di posti di lavoro nell’ultimo biennio di poco inferiore a quella tedesca, nonostante una forza lavoro che è meno della metà. Il tasso di disoccupazione era arrivato al 27 per cento nel 2013, nel momento peggiore della crisi, oggi è ancora alto, ma è sceso al 13,9 per cento. Si è messo in moto un circolo virtuoso a cominciare dai consumi delle famiglie che hanno trainato la corsa del pil.

 

  

Madrid ha approfittato di quella che è sempre stata indicata come una sua storica debolezza, la dipendenza dalla domanda interna, oggi molto tonica grazie anche alla ripresa del settore bancario (con sofferenze più che dimezzate rispetto al 2013) e al boom degli investimenti, aumentati del 4,6 per cento. Ma la vera novità è il recupero di produttività realizzato riducendo il costo del lavoro per unità di prodotto (fatto 100 il livello del 2010 oggi è a quota 96, l’Italia a 104). Ciò ha spinto anche le esportazioni. Nel 2019 aumenteranno del 5,2 per cento, l’anno prossimo si prevede un più 4,5 per cento. “Le riforme strutturali della Spagna – sostiene Angel Talavera di Oxford Economics – e il processo di adeguamento dei costi hanno fatto aumentare in modo notevole la competitività, consegnando un enorme vantaggio per le esportazioni e mettendo fine a un modello di crescita che si è rivelato insostenibile”. Il centro studi del Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, la seconda banca del paese, nel suo rapporto per il 2019 calcola che a fine 2020 dovrebbero esserci 800 mila nuovi posti di lavoro. I consumi pubblici cresceranno di un 2,4 per cento, quelli privati del 2,1 per cento. La tendenza si manterrà, con una qualche moderazione, nel 2020.

  

Wall Street, il vantaggio tecnologico, la produttività garantita da una forza lavoro preparata e flessibile alle radici del primato Usa

Il costo dell’aggiustamento è stato pesante, tuttavia l’economia è scattata come una molla e ha consentito un recupero del tenore di vita dopo un triennio davvero duro. Il reddito pro capite in Spagna è cresciuto ininterrottamente dal 2015 e secondo il Fmi ha ormai superato quello italiano (che dieci anni fa era più alto del 10 per cento): 38.286 dollari contro 38.140 già nel 2017, poi il divario è aumentato, vista la differenza nel tasso di crescita del prodotto lordo, più che doppio. Nell’agosto 2011 il governo spagnolo aveva ricevuto, esattamente come quello italiano, una lettera della Bce nella quale la Banca centrale europea chiedeva tagli alle spese, riforme e soprattutto una frenata dal lato dei salari. Il primo ministro, il socialista José Luis Rodríguez Zapatero aveva rifiutato di seguire quei consigli addirittura nascondendo la lettera in un cassetto. Nelle sue memorie scrisse che preferiva andare alle elezioni anticipate e perderle, pur di passare come un socialista che aveva tagliato i salari della classe operaia. Così avvenne, ma il paese non si salvò dalla crisi e dalla stretta.

 

  

Un passaggio fondamentale per la ripresa è stato, senza dubbio, il risanamento delle banche, vero epicentro della crisi, dopo lo scoppio della bolla immobiliare che in Spagna si era gonfiata più che nella media dei paesi europei e nel 2012 ha provocato una pesante crisi di liquidità del sistema bancario. Madrid fu costretta a chiedere aiuto ai partner europei per una cifra di 100 miliardi di euro. Il 31 dicembre 2013 la Spagna è uscita con successo dal programma di assistenza finanziaria dell’Esm, il fondo salva-Stati della Ue che ha erogato 41,3 miliardi di euro al governo spagnolo per la ricapitalizzazione del settore bancario. Molto articolato anche il piano di ristrutturazione che, secondo il Banco de España, ha realizzato ricapitalizzazioni per 53,6 miliardi, in varie forme. La Banca centrale ha calcolato che i salvataggi delle banche spagnole, nel periodo 2008-2014, sono costati al contribuente iberico 76 miliardi di euro di cui solo una minima parte, appena 4 miliardi, è stata recuperata mentre 12,19 miliardi potranno forse rientrare in futuro, portando quindi il passivo netto a 60 miliardi di euro. Nel rapporto i costi calcolati peraltro non includono le perdite sofferte dagli azionisti, dagli azionisti privilegiati e dai detentori di debito subordinato. Dunque, è andata peggio che ai risparmiatori italiani, al contrario di quel che blaterano i populisti.

 

Un passaggio fondamentale per la ripresa è stato il risanamento delle banche, epicentro della crisi dopo lo scoppio della bolla immobiliare 

Quanto ha inciso il disavanzo pubblico? Questo è un punto chiave perché i populisti autoproclamatisi keynesiani sostengono che la Spagna ha fatto meglio dell’Italia proprio perché le è stato consentito di violare le regole di Maastricht, mantenendo un disavanzo pubblico sempre superiore al 3 per cento. In realtà, anche in questo caso la flessibilità ha giocato a favore. Il debito rispetto al pil ha compiuto un balzo dal 40 per cento nel 2008 al 100 per cento nel 2014 poi è sceso al 98 per cento. Il deficit pubblico è balzato oltre il 10 per cento nel 2008 come risposta alla grande crisi internazionale, s’è abbassato al 9 poi è risalito nel terribile 2012, l’anno della crisi dei debiti sovrani; da allora è caduto a precipizio sotto il 3 per cento a mano a mano che il recupero di produttività interna riportava in alto il prodotto lordo. È Madrid, se vogliamo, ad aver seguito la vera ricetta di John Maynard Keynes, non l’Italia dove la produttività ristagna, il debito è passato dal 100 al 132 per cento del pil e da lì non si è più mosso, anche se il disavanzo pubblico è rimasto in media attorno al 3 per cento negli ultimi dieci anni. Quella italiana resta una economia vischiosa, specchio di un paese dove prevale l’attrito, la resistenza, la mucillagine come dice il Censis.

 

Anche il boom americano, secondo i populisti pseudo-keynesiani, è frutto del disavanzo statale nonostante negli Usa non passi attraverso la dilatazione della spesa, ma per la riduzione delle imposte. I tagli fiscali di Trump, in effetti, hanno impresso un colpo di acceleratore alla congiuntura, in particolare lo scorso anno, tuttavia la crescita è figlia di una economia robusta e competitiva i cui punti di forza ruotano soprattutto attorno alla rivoluzione digitale. Jon Hilsenrath sul Wall Street Journal ha scritto parole di antica saggezza economica che ricordano Adam Smith, il quale mette al centro, ma guarda un po’, il lavoro. Cominciamo da una semplice verità: “Si può dare una spinta alla crescita economica nel breve termine attraverso la domanda, per esempio con tagli alle tasse e aumenti delle spese. Ma l’unico modo di sostenere uno sviluppo più rapido nel lungo termine è con più lavoratori che producono beni e servizi in modo più efficiente”. Senza aumento della produttività e della forza lavoro la domanda di per se stessa dissipa ogni stimolo esterno. Per gran parte dello scorso anno sembrava plausibile che la rapida crescita americana fosse basata sulla domanda interna, poi sono apparsi chiari i segni che a tirare è l’offerta cioè operai, macchine, produzione di merci a mezzo di merci .

 

Il dipartimento al Commercio ha pubblicato un rapporto secondo il quale l’economia americana nel primo trimestre è cresciuta a un tasso del 3,2 per cento con bassa inflazione. Che cosa ha sostenuto questo risultato? La Macroeconomic Advisers calcola che la produttività è salita del 2,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. Se le stime sono corrette, sarebbe il risultato migliore dal 2010 quando la economia stava rimbalzando dopo la lunga e profonda recessione dei due anni precedenti. Tra il 2010 e il 2017 la produttività era cresciuta in media dell’un per cento l’anno: ciò significa che l’economia americana è in piena accelerazione. Lo dimostra anche l’andamento dell’occupazione: un per cento l’anno in media il doppio rispetto all’andamento del periodo 2010-2017. “Una popolazione più vecchia pesa come un fardello sul mercato del lavoro, ma salari crescenti e più opportunità di lavoro hanno portato molta gente, soprattutto donne, nella forza lavoro e tenuto più a lungo al lavoro la popolazione più anziana”. Altro che “liberare dal lavoro” con le pensioni anticipate come proclama Matteo Salvini. “Sommate una produttività che cresce di due punti percentuali e una forza lavoro che aumenta di circa un punto e troverete una crescita del 3 per cento senza bisogno che la Federal Reserve aumenti i tassi per impedire spinte inflazionistiche”, conclude il Wall Street Journal. Dunque, badiamo ai fondamentali, torniamo ai classici. Dal lavoro nasce la ricchezza delle nazioni.

 

Durerà? Molti sono scettici e gli stessi economisti come al solito si accapigliano: da una parte gli offertisti, i supply siders, dall’altra i fautori della domanda interna. “Lo scorso anno abbiamo visto che sono state comprate tante macchine – dicono i primi- adesso sono al lavoro”. “Certo, ma producono perché la gente ha più soldi da spendere – ribattono i secondi – e questi vengono dalla riduzione delle imposte”. A chi dare credito, dunque? A Trump? O al vecchio Adam Smith? In attesa di risolvere il dilemma, a Wall Street comprano e vendono, anzi comprano più che vendere perché l’indice Standard & Poor’s delle principali 500 imprese è tornato ai suoi livelli più alti. Il toro prevale sull’orso, come dicono in gergo gli gnomi della finanza. Ma attenzione, questa volta la finanza segue e alimenta la produzione. Quanto andrà avanti nessuno lo può sapere e in fondo non è questo che conta oggi, bensì quanta forza umana si metterà ancora al lavoro e come.

  

Quella italiana resta una economia vischiosa, specchio di un paese dove prevale l’attrito, la mucillagine, come dice il Censis

Il primato americano si regge su molti fattori, tra i quali proprio Wall Street, il vantaggio tecnologico ancora ampio rispetto alla Cina e anche all’Europa, e la produttività garantita da una forza lavoro preparata e flessibile. Microsoft, Apple, Amazon, Facebook, Google e via dicendo sono le locomotive americane, alcune da almeno un quarto di secolo, altre da una decina d’anni. Con buona pace di Trump sono loro a far girare i dollari molto più dell’acciaio o dello stesso petrolio. Un tempo si diceva quel che va bene alla General Motors va bene all’America oggi al posto della Gm o delle stesse sette sorelle dell’oro nero, andrebbero messe le Big Five della rivoluzione digitale. Non sempre la produttività resta elevata, ma quando scende porta con sé tutto il resto e lo stesso accade quando sale.

 

È una lezione che vale in generale, ma soprattutto per l’Italia che non la vuole imparare, per questo prevale ormai da un ventennio una sorta di ristagno malmostoso e infelice. La mini recessione è finita, si dice, anche se il paese è comunque in stagnazione, non c’è il segno meno davanti all’indice del prodotto lordo. Bene. Il governo gialloverde plaude a se stesso, così come aveva gettato sul predecessore la responsabilità della discesa negando che tra Renzi e Gentiloni il centro-sinistra una certa ripresa (sia pur piccola) l’aveva centrata. La politica è così soprattutto quando prevale la propaganda. Eppure l’Istituto italiano di statistica spiega che l’ultimo rimbalzo del pil è trascinato dalla domanda estera, non dal reddito di cittadinanza o da quota 100 (che peraltro debbono ancora produrre i loro effetti), ma da quel nucleo di imprese che ha tenuto bene anche durante la frenata del pil e ha fatto da locomotiva. Il rallentamento, al contrario, era figlio di una domanda interna fiacca e dell’incertezza creata dal sobbalzo dello spread. Non ci sarebbe nulla di male a dire le cose come le dice l’Istat, presieduto oltre tutto da Giancarlo Blangiardo, un demografo scelto dal governo. Ma la demagogia acceca. In ogni caso, proprio come nella Spagna del socialista Sánchez o nell’America del nazionalista Trump, anche la sinusoide italiana ci riporta ai fondamentali dell’economia, là dove i rapporti di produzione hanno la meglio sui rapporti politici.

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