Gian Carlo Blangiardo (foto Imagoeconomica)

La versione di Blangiardo, Mr Istat

Luciano Capone

La vera emergenza è demografica. “L’Italia spende troppo in pensioni e poco per le famiglie”

Roma. Economia, demografia, politiche sociali e immigrazione. Nella sua prima intervista da presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo parla a tutto campo della situazione italiana senza risparmiare qualche critica all’azione di governo su quota 100 (“la nostra spesa è molto sbilanciata sulle pensioni, mentre spendiamo poco per le famiglie”) e reddito di cittadinanza (“non copre tutta la povertà assoluta e non tiene in particolare considerazione le famiglie numerose”).

  

Professor Blangiardo, partiamo dagli ultimi dati Istat su pil e occupazione. Nel primo trimestre siamo tornati a crescre dello 0,2 per cento, dopo due trimestri negativi, e anche l’occupazione è salita a marzo dello 0,3 per cento. Piccoli segnali di ripresa, ma di un’economia sempre in stagnazione. Come possono esserci crescita e nuovi posti di lavoro se non aumenta la produttività? Cosa non va nel nostro sistema? “Il quadro complessivo è quello di un’economia vitale, seppure esposta alle perturbazioni del ciclo internazionale, e con un gap di crescita rispetto alla media dell’area dell’euro che sembra permanere sia nelle fasi di flessione sia in quelle di recupero dei livelli di attività produttiva. Anche le recenti vicende congiunturali confermano un’elevata capacità del settore industriale di intercettare le opportunità offerte dal contesto globale. Al tempo stesso affiorano dinamiche di crescita relativamente lente in quei settori dei servizi più dipendenti dalla domanda interna. Molti dei nostri limiti sembrano riconducibili a una struttura dimensionale delle imprese ancora eccessivamente bassa e frammentata, con conseguenze negative sull’efficienza del sistema produttivo e sulla crescita della produttività, con problemi di sottoutilizzo del capitale umano. Si tratta di ostacoli che vanno superati anche disponendo di informazioni adeguate sui comportamenti delle imprese e sulle complesse trasformazioni nel settore. Molte risposte arriveranno dal Censimento permanente delle imprese che partirà il prossimo 20 maggio e i cui esiti saranno disponibili a partire dal prossimo anno”.

 

Lei è un demografo. Dall’ultimo rapporto Istat sul tema, la popolazione diminuirà di 1,6 milioni di persone entro il 2045 e 6,5 milioni entro il 2065.  Qual è il futuro demografico dell’Italia? “Distinguiamo ciò che è già avvenuto da ciò che può succedere. Se andiamo a vedere l’andamento della popolazione residente in Italia negli ultimi anni, scopriamo che nell’arco di un quadriennio sono spariti circa 400 mila residenti. Siamo di fronte a una popolazione che già si è ridimensionata, e questo nonostante la forza dell’immigrazione. E’ una diminuzione di popolazione che si ritrova solo nel 1918, ai tempi della prima guerra mondiale e dell’epidemia di spagnola, in un momento molto particolare e drammatico. Un secolo dopo, in un mondo decisamente più florido, stiamo dunque assistendo a una perdita di popolazione simile. E se ci spingiamo a formulare proiezioni sugli scenari futuri, è evidente che con questi andamenti e con i fattori che li determinano non potremo che avere, a meno di apporti migratori straordinari e sempre difficili da gestire, una popolazione che andrà a diminuire”.

 

Questo è il semplice dato numerico, ma cosa implica? “Meno popolazione significa minore consumo, minore forza produttiva e potenzialità. E’ chiaro che il numero non dice tutto. Parliamo di qualche milione di persone in meno in un contesto in cui, e va rimarcato, i cambiamenti rispetto alla struttura per età saranno enormi e potranno diventare molto problematici”. 

 

Insomma, siamo un paese già vecchio e che sempre più invecchia. “Siamo di fronte a una situazione in cui ogni anno, dai primi anni 90, i morti superano i nati. Anche quando si cresceva, ciò era dovuto esclusivamente al contributo dell’immigrazione. Con il calo della natalità l’allungamento della sopravvivenza, è in atto da tempo un progressivo invecchiamento della popolazione, il che vuol dire sempre più anziani e quindi più bisogno di welfare, sanità e pensioni. Qualche dato eloquente: oggi ci sono 700 mila persone con almeno 90 anni e tra 40 anni ce ne saranno 2,5 milioni. Ci sono 16 mila ultra centenari e tra 40 anni ce ne saranno 120 mila. Non a caso l’Istat, in occasione del prossimo censimento demografico, cercherà di capire se e quanto le abitazioni hanno un accesso all’esterno, uno scivolo per la carrozzina, e chi ci abita. A quel punto potremo sapere quante sono le persone anziane confinate in casa, così da tenere sotto controllo un fenomeno che già oggi è presente e che, in prospettiva, sarà sempre più rilevante. La statistica e la demografia, attraverso la rilevazione di questi fenomeni sociali, possono aiutare a migliorare la qualità della vita”.

 

Accennava al fatto che l’immigrazione per un certo periodo ha compensato il calo demografico. Secondo le proiezioni dell’Istat sono previsti circa 300 mila immigrati l’anno nei prossimi 50 anni e nonostante ciò la popolazione diminuirà. Vuol dire che l’immigrazione non è sufficiente, ma non significa anche che bloccare l’immigrazione è dannoso? “Ho l’impressione che i 300 mila all’anno siano esagerati. I dati di scenario del bilancio demografico, vado a memoria, prevedono un saldo migratorio positivo di circa 170 mila unità annue”. Sì, il saldo è positivo di 170 mila, ma proprio perché ai 300 mila immigrati vengono sottratti i circa 130 mila che emigrano. Il mio riferimento era solo alla migrazione in ingresso, proprio perché oltre alla bassa natalità c’è anche un problema di italiani che vanno via. “Certo, bisogna considerare i flussi sia in entrata che in uscita. E per quanto riguarda l’emigrazione ricordiamoci che esiste anche una componente importante che è fornita dagli stranieri diventati italiani. Per esempio nel 2017 ci sono stati 32 mila ex-stranieri che sono emigrati dopo aver acquisito la cittadinanza italiana. Si tratta talvolta di soggetti che arrivano in Italia per vari motivi, alcuni hanno i nonni italiani e possono diventare facilmente cittadini, ma il loro progetto originario era già di andare altrove”. E gli altri? “Sicuramente l’emigrazione italiana è un fenomeno aumentato negli ultimi tempi, dal 2011 in poi i dati mostrano un crescente esodo di nostri concittadini, spesso giovani e con un buon livello di istruzione. Ma tornando alla domanda di partenza” … il ruolo dell’immigrazione rispetto al calo demografico. “Sì, ha svolto un ruolo fondamentale nel compensare il saldo naturale negativo, l’eccesso dei morti sui nati. L’immigrazione negli ultimi tempi, quella classica per lavoro, si è molto attenuata perché dopo la crisi abbiamo perso l’attrattività di un tempo in settori come le costruzioni, dove c’era molta richiesta di manodopera straniera. L’immigrazione che c’è stata negli ultimi anni è in parte legata a ricongiungimenti familiari e in parte è derivante dagli sbarchi. Tra chi è giunto sulle nostre coste, ci sono molte persone che sono state regolarmente accolte e quindi iscritte nelle anagrafi come residenti. C’è stato un cambiamento anche qualitativo, da un’immigrazione attratta da fattori lavorativi a un’immigrazione spinta da condizioni di disperazione. E’ chiaro però che questo non è fenomeno che può continuare in maniera indeterminata, e infatti ha già avuto un ridimensionamento. Contare eccessivamente sull’immigrazione credo che non sia possibile. Né lo è immaginare che questa possa continuare a compensare il saldo naturale negativo, che oggi è quasi di 200 mila unità e che, secondo le previsioni, tra 3-4 decenni potrebbe toccare le 400 mila. Quando avremo 400 mila nati e 800 mila morti è evidente ci sarà un problema. Il messaggio che i dati statistici forniscono a chi governa, è che questo andamento metterà a rischio alcuni importanti equilibri del sistema paese. Se ci piace andiamo avanti così, altrimenti cerchiamo di cambiare le cose”.

 

Se però si vuole agire sul tasso di natalità, rinunciando all’immigrazione, l’effetto si vedrà solo nel medio periodo. Almeno in un paio di decenni, o no? “Ci sono due momenti diversi da affrontare. Siamo in presenza di una débâcle: dal 2013 facciamo il record della più bassa natalità di sempre, e ogni anno sempre più in basso. Un primo obiettivo è fermare la febbre, bloccare la discesa. Successivamente si può pensare a invertire la tendenza sulla fecondità, che dipende dai modelli riproduttivi, dalle scelte delle coppie e delle famiglie. Anche in altri paesi europei il tasso di natalità è sceso, ma a un certo punto c’è stata un’inversione di tendenza, magari non esagerata, penso a Germania, Danimarca, Austria, Ungheria, Repubblica ceca. E’ la dimostrazione che qualcosa si può fare, e qualcuno l’ha fatto. Non illudiamoci di diventare la Francia, che arriva a poco meno di due figli per donna, ma almeno possiamo recuperare qualcosa”. Cosa si può fare? “Nella letteratura demografica, ci sono leve su cui intervenire. Sono di natura economica, perché ovviamente i figli costano, ma sono anche di natura normativa. Perché i figli costano in termini di tempo, sono un problema per la donna che lavora. I dati dell’Istat sulla copertura sul territorio rispetto alla domanda di asili nido mostrano che in certe aree del paese, nel Mezzogiorno in particolare, la situazione è drammatica. In altre lo è meno, ma il problema sussiste. Se una donna deve spendere 900 euro al mese per un asilo privato e ne guadagna 800, o rinuncia al figlio o rinuncia al lavoro. Poi c’è da dire che non esiste un clima culturale favorevole ai figli. Chi fa tre figli non ha alcun riconoscimento sociale, nessuno si ricorda che quei bambini pagheranno le future pensioni. Recuperare questo tipo di valore è una piccola cosa, ma può aiutare”. Intanto, con una popolazione che invecchia, si è deciso di spendere ancora di più sulle pensioni. Com’è la situazione della spesa sociale negli altri paesi? “I dati Ocse sulla parte del pil che finisce alle famiglie dicono che non siamo ben messi, siamo verso la coda. Spendiamo 490 per euro pro capite per la famiglia mentre la media europea è 690 euro, in Germania è 1.233 euro e in Francia 815 euro. La Germania è un altro paese che avrà problemi sull’invecchiamento, ma ha già lanciato un segnale positivo. Noi siamo molto sbilanciati sulle pensioni e bloccati dal debito pubblico, con un deficit che non può andare oltre certi limiti”.

 

E’ in corso una discussione sugli immigrati irregolari. Il ministro Salvini dice che non sono più 5-600 mila, ma solo 90 mila. Eppure quella stima di 530 mila era stata fatta proprio da lei, in uno studio della Fondazione Ismu. Chi è che si sbaglia? “Facciamo chiarezza. Io dagli anni 90 ho ricostruito la stima dell’irregolarità, dalla legge Martelli del 1990 fino al 2018, e il grafico che la descrive nel tempo è un biscione che va su e giù ogni volta che c’è stata una sanatoria. Negli ultimi anni questa curva aveva raggiunto un minimo di 250 mila unità, dal 2014 ha ricominciato a salire perché non ci sono state sanatorie e c’è stato l’effetto degli sbarchi. Gran parte degli immigrati inizialmente è andata verso altri paesi, poi questi hanno cominciato a chiudere e controllare le frontiere e molte persone si sono trovate imprigionate in Italia da irregolari. Così la stima iniziale, essendoci pochi rimpatri e in presenza di un’alta quota di richieste d’asilo respinte, è andata gonfiandosi ed è arrivata a 533 mila nel 2018. Questo è lo stock”. Ma Salvini dice che lei si sbaglia, ora sono 90 mila. “Si tratta di un altro conteggio. Al ministero qualcuno si è messo a contare quanti sono arrivati, quanti sono spariti perché andati in altri paesi, quanti sono stati sistemati in un centro di accoglienza e quanti rimpatriati … e alla fine si arriva ai famosi 90 mila irregolari in più. Sottolineo la parola ‘in più’. I 90 mila sono un dato di flusso mentre i 533 mila sono lo stock. Sono due cose diverse che voi giornalisti avete messo insieme”. In realtà è stato Salvini, e poi il M5s in polemica con lui, a confondere le due cose. “Le dichiarazioni erano forse poco chiare, ma i numeri lo sono abbondantemente. Al primo gennaio 2018 gli irregolari erano 533 mila, oggi siamo a maggio 2019 e immagino che siano aumentati. Senza sanatorie, consistenti rimpatri o nuove regolarizzazioni è quasi inevitabile che aumentino, quantomeno per via delle domande d’asilo non accolte”.

 

Dal numero di richieste del reddito di cittadinanza non si raggiungeranno i famosi 5 milioni di poveri. E’ l’Istat che ne conta troppi o il Rdc che non li raggiunge tutti? “Bisogna distinguere le due cose. L’Istat misura la povertà, quante sono le persone che vivono sotto un certo livello, e sono i famosi 5 milioni di persone o 1,8 milioni di famiglie. Basta fare una divisione e si noterà che la dimensione media delle famiglie povere è di 2,8 persone, mentre per le famiglie in generale la dimensione media è 2,3. Vuol dire che le famiglie povere hanno in media mezza persona in più, e cioè che le famiglie con figli sono più povere”. E il reddito di cittadinanza? “Il reddito di cittadinanza è invece il risultato di una legge che lo assegna sulla base di alcuni requisiti. In questo caso la dimensione media delle famiglie beneficiarie, secondo Istat, è stimata in 2 unità, una dimensione diversa da quella delle famiglie in povertà assoluta. Non sono esattamente i poveri assoluti misurati dall’Istat, sono un’altra cosa. Esiste soltanto in parte una sovrapposizione”. Vuol dire che non incide sulle famiglie più numerose? “Se i numeri sono questi probabilmente sì, perché può essere che la norma non le tenga in particolare considerazione. Va tenuto presente che l’Istat, quando stima la povertà assoluta, usa soglie differenziate, che tengono conto della variazione del costo della vita secondo la collocazione geografica e la dimensione dei comuni. Il reddito di cittadinanza non fa alcuna distinzione e anche questo può contribuire alla differenza”.

  

Secondo l’Inps il reddito di cittadinanza avrà un forte impatto sulla forza lavoro e sull’output gap, cosa che darebbe al governo più spazio fiscale e possibilità di spendere in deficit. Secondo il Mef, che ha fatto simulazioni sui modelli Istat, non ci sarà alcun effetto del genere. Visto che le rilevazioni sulla forza lavoro le farà l’Istat, quale sarà l’effetto? “Nel corso di una recente audizione in Parlamento abbiamo stimato che i beneficiari con obbligo di sottoscrizione del patto per il lavoro, precedentemente inattivi, sarebbero circa 400 mila a fronte di un numero totale di 2 milioni 706 mila beneficiari. Questa sarebbe l’offerta aggiuntiva generata dal provvedimento. Per quanto riguarda, invece, la stima dell’output gap, non abbiamo prodotto né pubblicato simulazioni”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali