Letteratura del contagio
Altro che coronavirus. La peste, la morte, gli untori, l’apocalisse, i monatti, la paura. Da Tucidide a Boccaccio, da Atene a Firenze fino alla Milano di Don Rodrigo. L’epidemia è diventata pure romanzo
Il coronavirus è entrato nel nostro immaginario da poche settimane e ha già confermato due mie certezze: la nostra prima reazione alle notizie è sempre sbagliata e, qualsiasi cosa ci stia accadendo intorno, la letteratura l’ha già raccontata prima e meglio.
Tutto comincia con Tucidide e la descrizione della peste in Atene, nell’anno 430 a.C., il secondo della guerra del Peloponneso. La malattia, come un cecchino ben istruito e ben attrezzato, gambizza il più forte, la città potente che si pavoneggia con aria da regina. Come sappiamo già dalle favole di Esopo, la vanità viene sempre punita e, se ciò dovesse avvenire solo nella morale e non nella realtà, la narrazione potrebbe comunque venirci in soccorso, casomai qualcuno dovesse scordarsi di trarre un insegnamento dalla storia o dubitare della sua nobile funzione di magistra vitae. Con un carico di tragica quanto involontaria epicità, la malattia si presenta puntuale all’appuntamento con la tracotanza: taglia la testa al capopopolo (nientemeno che Pericle lo strategós, poi: uno dei politici più carismatici del mondo antico viene contagiato e muore insieme alla famiglia); la malattia arriva dal mare, dal porto, dallo straniero, dall’Africa: presto, chiudete i porti, anzi no, buttatevi in mare; la malattia costringe a ripensare la politica interna e a prendere provvedimenti veloci, troppo veloci, per forza sbagliati. Fintamente protetti dalla folla, asserragliati dentro le mura, con gli abitanti del circondario che si riversano all’interno, gli ateniesi di città e di campagna peggiorano le loro condizioni igieniche e muoiono uno dopo l’altro. L’apocalisse è servita: i vivi sono infetti e i morti pure, la città si indebolisce e barcolla, i roghi di cadaveri impongono agli spartani un passo indietro. Atene ci metterà anni a riprendersi e sulla sua convalescenza peseranno anche due nuove non gradite visite epidemiche (429 e 427 a.C.).
Qualsiasi cosa ci stia accadendo intorno, la letteratura l’ha già raccontata prima e meglio. La peste ad Atene raccontata da Tucidide
Intanto, se la malattia è mortale, chi se l’è scampata mortale non è più: si è guadagnato sul terreno l’identificazione con un dio. Scrive Tucidide: “C’erano alcuni sopravvissuti che avevano compassione per i moribondi e i malati, perché c’erano passati e ormai avevano fede; infatti la malattia non si accaniva due volte sulla stessa persona, almeno non per ucciderla. Gli altri li consideravano beati, e anche loro si consideravano così”. Gotiche e spettrali sono invece le descrizioni dei morenti, riprese da Lucrezio, angeli caduti, inarrestabili e spaventosi, scarnificati Luciferi: “Affilate le narici, sottile e acuta la punta del naso, scavati gli occhi, cave le tempie, gelida e rigida la pelle del viso, cascante la bocca spalancata, tesa la fronte”. Non sono più umani, sono emissari della nera signora; di fronte a questa diretta emanazione degli inferi, a questo flagello incarnato da cui non ci si può difendere, che fare? Se gli dei o l’etica hanno deciso che dobbiamo morire, l’uomo può qualcosa oppure deve soltanto subire una volontà superiore?
Per avere una risposta miliare e indimenticabile dobbiamo aspettare più di un millennio. Nel Quattordicesimo secolo, la peste nera devasta l’Europa e Boccaccio spiega con chiarezza che no, non possiamo evitare di morire, però possiamo provare a ingannare il tempo raccontandoci delle storie. Due sono gli insegnamenti della sua opera: la prima è che mettersi al sicuro è sempre una buona idea, la seconda che siccome le fake news servono solo a renderci più esaltati, più fragili e più suggestionabili, allora, piuttosto che una mezza informazione, meglio non sapere niente, meglio isolarsi, lasciar perdere le notiziacce, starsene stretti ed esuli a inventare mondi segreti sperando che là fuori qualcuno trovi presto una soluzione. Il Decamerone, come Le mille e una notte, non è una ricetta, la letteratura non sostituisce la scienza né la politica, non guarisce morbi né alleggerisce la perfidia dei sovrani, però ha l’altissimo compito di riempire il “nel frattempo” che separa la nascita dalla morte, di allargare la parentesi del nostro passaggio terrestre. Le sette donne e i tre uomini che per dieci giorni scappano da Firenze e decidono di narrarsi cento novelle si trasformano in dieci piccoli Sheherazade d’Occidente in sfida aperta con il nemico più terribile, un nemico più indomito di un re impazzito: la malattia. Contro di lei, i dieci del Boccaccio provano a salvarsi la vita e in quella lotta, qualche centinaio d’anni prima di Sigmund Freud, scoprono che quando il senso di morte incombe non c’è altro rimedio che fare l’amore o almeno raccontarselo: non s’è ancora visto niente di più efficace di eros per scacciare thanatos, non s’è mai visto momento più propizio di catastrofi, guerre, sismi, lutti, uragani per chiudersi in uno scantinato, in una cantina, in un solaio e baciarsi a più non posso. Devi morire, ci ricorda la pestilenza; e allora che io possa almeno innamorarmi, risponde l’essere umano.
La peste non smetterà di avere qualcosa da dirci e noi non smetteremo di interrogarla. Ma dalla letteratura abbiamo imparato poco
Fra l’erotismo di Boccaccio e quello di Gesualdo Bufalino trascorrono seicento anni: è del 1950 la prima stesura di Diceria dell’untore, rimaneggiata dall’autore nel 1971 e poi ancora dieci anni dopo (uscì nel 1981 per Sellerio, grazie all’intuito di donna Elvira e di Leonardo Sciascia, e rivelò al mondo il talento di un fino ad allora sconosciuto professore di provincia; nello stesso anno vinse il premio Campiello). Il romanzo narra le vicende di un giovane reduce della Seconda guerra mondiale che, nel 1946, scampato alla morte in battaglia si trova a fare i conti con un altro apprendistato di morte, il sanatorio della Rocca, nei pressi di Palermo, dove “l’attesa della morte è una noia come un’altra” e per distrarsi non resta che guardare le ragazze, inaccessibili e rinchiuse nel reparto femminile. L’io narrante si perde nell’amore per Marta Blundo, diafana, sottile, emaciata e moribonda, un serafino che soccomberà alla malattia non in sanatorio ma fuori, sulla costa. Non si smette di essere untori fuori dal ghetto, si resta morti nella città dei vivi, come esperisce il protagonista quando torna nel paese natale, ormai appartiene alla Rocca, come Marta e come tutti: il sanatorio è il luogo in cui nasci per la seconda volta dopo aver rischiato di morire, e da quel giorno, sulla tua carta d’identità, conterà più del paesello avito.
Il sanatorio all’insegna della clessidra è il titolo della seconda raccolta di racconti del geniale scrittore ebreo polacco Bruno Schulz: un figlio assiste impotente all’ultima e irreversibile dipartita del padre e al fallimento del più audace e sognatore fra i tentativi, far tornare indietro il tempo e sconfiggere la morte. Schulz individuava nella reclusione dei malati, spogliati di ogni identità e raggruppati per malattie, un momento sospensorio, una possibilità di inversione cosmica, di rigenerazione della materia. Per i cattolici, invece, c’è l’Apocalisse di Giovanni (“Ecco apparve ai miei occhi un cavallo livido, chi lo cavalcava era chiamato Peste e Ade lo seguiva”), con l’inarrestabile avanzata del male alla conquista del mondo, un condizionamento secolare e invisibile: non esistono molte malattie che finiscono sui libri di storia per quanto hanno schiacciato, distorto, influenzato il corso degli eventi. La peste non smetterà mai di avere qualcosa da dirci (Loredana Lipperini ha annunciato entro l’anno un romanzo al quale lavora da tempo) e noi non smetteremo mai di interrogarla (le pagine dei Promessi sposi sul contagio sono fra le più lette e analizzate in tutte le scuole d’Italia), salvo poi, ogni volta che ce la ritroveremo davanti, reiterare gli automatismi che ingenera.
I consigli di Boccaccio: mettersi al sicuro è sempre una buona idea, piuttosto che una informazione falsa, meglio non sapere niente
Così, alle prime notizie sulla diffusione del coronavirus, anziché imparare dalla letteratura come tenere a bada la nostra legittima angoscia evitando di atteggiarci a scienziati da divano e commentare notizie a casaccio, abbiamo deciso di non prendere le dovute precauzioni seguendo cautamente le indicazioni sanitarie di chi ne sa un po’ più di noi (ammetto che, nel clima di euforico additamento degli untori e di altrettanto euforica minimizzazione, non era facilissimo ricavarle), ma di assumere una postura che aderisse il più possibile all’unico sentimento ammesso nell’èra dei social network: l’indignazione reattiva. Le scelte erano due soltanto: indignarsi contro gli asiatici che vengono a portarci il virus a casa nostra oppure indignarsi contro i connazionali razzisti che osano sostenere che il virus venga da una precisa area geografica. Il mondo si è diviso tra chi vedendo un cinese chiama l’esorcista e chi lo va a cercare per farcisi una foto abbracciato, tra chi “per precauzione” diserta l’Esquilino o via Paolo Sarpi e chi per dimostrare spavalderia si ingozza di riso alla cantonese e ravioloni al vapore.
È del 1950 la prima stesura di “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino. Cronache dal sanatorio della Rocca di Palermo
Senso del ridicolo a parte, non si sa quale delle due reazioni sia più offensiva: se gli insulti sono sempre pessimi, il paternalismo non richiesto può risultare grottesco, e persino sgradevole. Il buonsenso purtroppo non si può insegnare, e forse neanche quelle due armi di distrazione di massa: fare l’amore, si diceva, e raccontare storie. Ce n’è anche una terza, sempre per approfittare della fragilità portata dalla pestilenza, un’opzione renziana, non nel senso di Matteo ma di Tramaglino: perdonare i nemici. Così scrive Manzoni: “Intanto, girando con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da parte sur una materassa, involtato in un lenzuolo, con una coppa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe Don Rodrigo…”. Come andò, lo sappiamo: accantonati i propositi di vendetta grazie alla mediazione di padre Cristoforo, Renzo finisce per pregare per la salvezza dell’uomo che ha causato tutti i suoi mali. Insomma, se mentre impazza l’epidemia proprio non riusciamo a usare il buon senso, se proprio non abbiamo storie da raccontare o qualcuno di cui innamorarci, vediamo di rimediarci almeno un nemico da perdonare, così quando l’apocalisse sarà finita non saremo sopravvissuti invano.
Intervista a Gabriele Lavia