John Singer Sargent , “Repose”, olio su tela, 1911 (Wikipedia)

Ci ricorderemo della noia

Nadia Terranova

Durante la clausura del coronavirus abbiamo vissuto giorni che non sapevamo come chiamare. Da Brancati a Moravia fino a Melville, che cos’è questo tempo assurdo in cui la realtà non è abbastanza

Per molti, la noia è il contrario del divertimento; e il divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà”. Autore di questa divagazione semantizzante è Dino, pittore trentacinquenne borghese e alieno, deluso, fallito, in crisi, amante geloso di una modella minorenne per la quale rasenterà la follia, protagonista della Noia di Alberto Moravia. Nel 1960, la parola che dava il titolo al romanzo non era ancora stata colonizzata da pedagogismi da bar sul presunto altissimo valore del suo recupero in tempi di iperattivismo, iperconnessione, ipermercati; Moravia aveva cinquantatré anni, aveva vinto il premio Strega dieci anni prima, sposato Elsa Morante vent’anni prima, esordito con Gli indifferenti trent’anni prima. Era diventato scrittore appena uscito dal sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo, dove era stato ricoverato per la tubercolosi di cui soffriva fin da bambino; isolamento ed esclusione dagli svaghi dei coetanei l’avevano spinto a immergersi nella letteratura russa e francese, da cui era riemerso con idee limpide e abissali sulla scrittura del grande romanzo esistenzialista del Novecento italiano. Nelle pagine di Moravia, l’indifferenza e la noia significano rifiuto delle regole di un mondo in cui si nasce e si matura senza mai sentirsi pienamente organici; percepirsi nauseati, estranei rispetto a quei codici, formarsi attraverso la presa d’atto di una disappartenenza è una forma di ribellione violenta, che può portare all’ossessione e alla moltiplicazione di manie e fobie.


In Moravia indifferenza e noia sono il rifiuto delle regole di un mondo in cui si nasce e si matura senza mai sentirsi del tutto organici


 

Ecco cosa fatichiamo a riconoscere, oggi, nella noia: il suo splendido abisso, la sua straziante capacità sovversiva, per questo motivo siamo finiti ad augurarla ai bambini, immaginandola come un quieto spazio bianco da colorare con gli acquerelli e contrapponendola chissà perché alla tecnologia, alle corse nei prati. Ma la noia non è augurabile, non perché non sia seducente ma perché lo è con forza spaventosa, e soprattutto perché i bambini ne sono già afflitti, siamo noi a non saperla riconoscere: la pretendiamo innocua e fertile e quell’altra la chiamiamo apatia, mancanza di interessi (che significa, di solito: mancanza degli stessi interessi degli adulti, ovvero preziosa differenziazione). Devono annoiarsi, ma come diciamo noi, secondo un’idea smerigliata che somiglia ai nostri ricordi di infanzie senza internet, fatte di libri di carta da saccheggiare, giardini segreti che nessun altro vedeva, labirinti sotterranei che avevamo costruito con minuzia. C’è una mitizzazione della noia nei ricordi che trascura l’elemento più importante: quando ci siamo annoiati in un modo che adesso ci sembra epico non sapevamo di starci annoiando, non avvertivamo epicità né fertilità in ciò che ci stava accadendo. I bambini oggi hanno la loro noia, non è meno ricca della nostra, è solo che non la vediamo come i nostri genitori non vedevano la nostra; di tante strade che può prendere la noia trasformatrice, quella che meno le si confà è finire su un libretto di istruzioni per somigliare alle noie degli avi.

 

Tra le pochissime leggi della noia, c’è questa: non ci si può annoiare senza che ciò disintegri il mondo intorno; annoiarsi è una pericolosa fortuna dalle conseguenze imprevedibili; di noia si può morire, o almeno autoescludersi socialmente, farsi fuori, la noia è un romantico suicidio che ci esilia dalla condivisione entusiasta, un esplosivo da tenere in tasca perché troppa è la voglia di usarlo contro tutti, ma soprattutto contro noi stessi. Domenico Vannantò, protagonista dell’esemplare racconto di Vitaliano Brancati La noia del ’937, si fa fuori platealmente, davanti a un perplesso testimone: “– Ehi, dico a voi, che avete fatto? –, urlò il questurino, stravolto dalla paura. – Credo di essermi ucciso!, rispose Vannantò, col consueto tono di noia, reso leggermente più roco dalla gola sfracellata”. E’ la fine di una vita resa annoiatissima dalla tirannide: non c’è nulla al mondo di più uggioso di una dittatura, e la noia, nel 1937, in Italia la portò il fascismo, vero bersaglio di Brancati. Il fascismo chiedeva adesione (che noia) oppure rivolta (che altra noia). Come si fa la rivoluzione, in tempi di regime? Ovviamente posizionandosi dalla parte dei giusti, compiendo quello che Brancati definisce “il bel gesto” (che noia, che noia), espressione più adatta al corteggiamento che all’eroismo: “Se odiava la tirannide, perché non sparava? (…) Avrebbe potuto fare un bel gesto, ne conveniamo. Ma le parole ‘bel gesto’ con quell’aggettivo tronco bel le reputava adatte piuttosto a una donna che a lui: un bel gesto era una vanità di cui soltanto una persona vanitosa avrebbe trovato gusto a ornarsi”. Non solo: per uccidere la tirannide bisogna sparare a molte teste, non ne ha una soltanto, ma in giro ci sono più facce servili che cervelli, il che rende più difficile trovarle. Brancati racconta con la sua prosa brillante, con la sua meravigliosa ironia, la cittadina di Caltanissetta dove si trovò a insegnare all’istituto magistrale frequentato dallo studente Leonardo Sciascia. Sciascia chiamava Caltanissetta “la piccola Atene”, mentre Brancati fu accusato, con questo racconto, di aver messo il mondo nisseno alla berlina, ma: “Se dovessi tornare fra centomila anni in un mondo privo di Sicilia, passerei la vita senz’ascoltare con interesse una sola parola”, rispondeva se gli dicevano che stava svalutando l’isola. Nelle sue parole, la noia è più rivoluzionaria della rivoluzione: tutti si annoiano, nella Sicilia fascista del 1937, ma non se ne vogliono accorgere e fanno finta di essere felici. Vannantò, alter ego di Brancati, non solo se ne accorge, ma coltiva la noia come un lusso feroce: “Non gli restava che annoiarsi, annoiarsi nei modi più strani e diversi, ma unicamente annoiarsi. E questo egli faceva, passando da una noia avida e feroce, che divorasse quanto c’era all’intorno di odioso, a una noia sorda e plumbea, in cui si spegnesse, come grido nella nebbia, quanto c’era di vanitoso e petulante, a una noia lugubre e nera che avvolgesse, nel pensiero castigatore della morte, quanto c’era di stupidamente giulivo. Gli altri credevano di agire, ed egli si annoiava, gli altri credevano di godere, ed egli si annoiava.”


E’ parsa a lungo parola volgare, dei poveri di spirito che non sanno come intrattenersi da sé; e poi, per dispetto, parola ambitissima


 

L’annoiato, che mette sotto gli occhi degli astanti la grottesca inutilità del teatrino imbastito, è il peggior invitato che possiate avere a una festa, è quello che vi distruggerà anche l’ultima illusione. L’annoiato però è Dio, e se dalla sua noia non può venire la fine del mondo, perché sarebbe troppo volgare, come ci insegna il racconto di Brancati, può però scaturire tutto il mondo, come scrive Moravia: “In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiatosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta dal paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall’Eden”.

 

Sono tre le similitudini che, nel romanzo di Moravia, il pittore Dino usa per descrivere la noia: una coperta troppo corta che lascia sempre i piedi o il petto fuori, l’interruzione della corrente che fa calare il buio scontornando mobili e tende prima illuminati, infine una “malattia degli oggetti”, l’avvizzimento di un fiore o persino di un vaso. Nel primo caso, Moravia usa in modo diverso un’immagine già cara a Melville: “Per godere veramente del calore corporeo”, si legge in Moby Dick, “occorre che una piccola parte di noi sia fredda perché a questo mondo non c’è qualità che non sia tale solo per contrasto (…) Se, come era successo a Queequeg e a me a letto, la punta del naso o l’estremità della testa fossero un po’ freddi, ebbene allora in verità potreste dire che vi sentite deliziosamente e indubbiamente caldi”. Ciò che in Melville è piacere in Moravia è distorsione; per entrambi l’insufficienza della coperta costituisce l’attrito fra il sé e il mondo, la necessaria contrapposizione fra tesi e antitesi. Con la seconda similitudine, il blackout, Moravia esce dalla vigoria dialettica per andare verso la cupezza (in Dino, nella sua complessa compulsione, esistono insieme vitalismo e depressione): noia, suggerisce Moravia, è quando tutto intorno si spegne. Ma noia è anche una terza possibilità: ad ammalarci non siamo noi bensì gli oggetti, con un ontologico presagio di morte che i nostri occhi si limitano a registrare. In tutti e tre i casi, il sentimento nasce, per il pittore Dino, da quello dell’assurdità di una realtà “insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza.”


“Che avete fatto?, urlò il questurino, stravolto dalla paura. Credo di essermi ucciso!, rispose Vannantò, col consueto tono di noia”


 

Ecco cosa c’era di stonato nell’evocazione della noia durante la clausura del coronavirus: se la noia è un dissesto rispetto alla realtà, è difficile aderire se è piuttosto la realtà a dissestarsi. Nei mesi scorsi, abbiamo vissuto giorni che non sapevamo come chiamare, qualcuno poi li ha chiamati #fase1 perché a un certo punto si vedevano in lontananza la due e la tre, ed è successo che in quei giorni io non mi sia mai annoiata. Non è una buona notizia: se fosse accaduto, avrei sentito quello smottamento del terreno che avrebbe potuto fare di me una mancata rivoluzionaria (in senso brancatiano), o spingermi a scrivere il grande romanzo esistenzialista moraviano (però almeno l’ho riletto). I tedeschi, che hanno le parole più perfette per tutto, chiamano la noia “die Langeweile”, alla lettera: “lungamente per un po’ di tempo”. Ovvero: è tutto transitorio ed è tutto per sempre. Sarà pure nordica, ma la parola tedesca mi fa venire in mente le controre sudamericane, sieste e sombreri, saracinesche abbassate e la svagata certezza che tutto riaprirà, certo, ma più tardi. Quando? Più tardi. Sì, ma quando? Più tardi, più tardi. (A pensarci bene, Langeweile è un termine perfetto per la clausura; se pensassi in tedesco, allora sì che direi che in clausura mi sono annoiata, con tutt’altre, precisissime sfumature.)


I tedeschi, che hanno le parole più perfette per tutto, la chiamano“die Langeweile”: “lungamente per un po’ di tempo” 


Leopardi, che altrove definiva la noia “il più sublime dei sentimenti umani”, nelle Operette morali fa dialogare Torquato Tasso con il suo genio familiare e gli fa pronunciare questa affermazione: “A me pare che la noia sia della materia dell’aria. Tutti gli intervalli della vita umana sono riempiti dalla noia”. L’esistenza è una perpetua Langeweile, un eterno rimandare la fine senza mai vedere l’orizzonte, sempre restando tra le parentesi dove gli scrittori bravi fanno accadere le cose più interessanti, lasciano cadere le affermazioni più fulminee. Eppure, tale è stata la resistenza verso la noia, tanti i suoi fraintendimenti, che ci siamo convinti fosse meglio vergognarcene e usare in sua vece la gamma dei sinonimi snob, ammantanti di una dignitosa decadenza, di un presentabile decantismo: spleen o al massimo tedio, accidia, malinconia (meglio: melanconia; ancora meglio: melancolia). “Noia” è parsa a lungo parola volgare, dei poveri di spirito che non sanno come intrattenersi da sé; e poi, per dispetto, parola ambitissima, per evitare di essere poveri di spirito che non sanno intrattenersi da sé. Quasi sempre però la trattiamo come una parola neutralizzata, depoliticizzata, calmierata, come un vago insulto e non come la divergenza distruttrice e creativa che ci ha raccontato Moravia. Poi, un giorno, un ragazzo di Latina si è messo a cantare: “Mi annoiavo alle feste, mi annoiavo alle cene, e quante volte ho pensato che alla fine il sorriso è una parentesi se vedi bene”, e tutta la Langeweile del mondo è tornata. E’ Gaetano, il brano di Calcutta con quel verso che ti si appiccica in testa e canti vergognandoti per quanto è vero: “Ho fatto una svastica in centro a Bologna, ma era solo per litigare”, giusto per mostrare con elfico disincanto come ogni cosa su questa terra abbia origine da lì, dalla noia. No, non ho detto gioia.