Vestirsi dopo il virus

Simonetta Sciandivasci

Emancipati dall’etichetta, rischiamo un’ennesima pandemia di egocentrismo

Non parliamo che di vestiti, anche adesso che ne vediamo così pochi, ne indossiamo di dimessi, non ne compriamo più. Coi vestiti misuravamo il mondo, e continuiamo a farlo, anche se la profezia della morte dell’abbigliamento, azzardata da Bloomberg meno di due anni fa, sembra avverarcisi sotto gli occhi, nelle dirette Instagram, nelle videochiamate, nella tv dei collegati. Parliamo d’abiti e apparenze in un modo diverso, sempre di più come un dettaglio divertente, anziché rivelatore. Sui femminili escono stentati servizi su come vestirsi in quarantena, soprattutto durante le videoriunioni, ma li sfogliamo distrattamente, con noia, a volte persino fastidio. E non per intolleranza alla frivolezza, dacché abbiamo sempre saputo quanto conta la mise giusta, specie a lavoro, e che a ciascuna mise corrisponde un’immagine precisa di virtù o complesso di virtù. I millennial, tanto per riduzione del loro potere d’acquisto quanto per svogliato ribellismo e cultura dell’essere se stessi, avevano principiato un processo che il Covid ha portato a veloce, forse pure precoce, maturazione: l’inflazione della divisa. Negli ultimi anni, sempre più trenta-quarantenni, a cominciare da quelli statunitensi, hanno contestato i dress code e l’idea a essi sottesa: a competenza e affidabilità professionali fossero desumibili dal vestiario.

 

Per loro, perfettamente rappresentati da Mark Zuckerberg che alle prime riunioni di Facebook si presentava con addosso una felpa con la scritta FUCK, la pressione psicologica di doversi attenere a un codice così spersonalizzante e omologante, infatti, era intollerabile, e avevano pure proclamato che “il vero potere sta nel sapersene fottere delle regole” (quante se ne inventano pur di non riconoscersi, semplicemente, inabili all’adattamento, e vanesi abbastanza da ritenersi marchi unici). “Dopo la pandemia, gli abiti da lavoro potrebbero non tornare”, ha titolato l’Atlantic. Dopo aver visto per due mesi il proprio direttore dar in felpa e mutande (essì) mentre alle sue spalle viene cambiato il pannolino a un bambino, credete che ripristineremo la nostra sensibilità per gli abiti sartoriali? Crederemo ancora che dove c’è un Armani c’è un capo? Il contraccolpo sul classismo, di cui i millennial soffrono moltissimo, tuttavia propugnandolo in centinaia di modi diversi, potrebbe essere notevole, anche se non tramortente.

 

Tanti saluti all’eleganza, di certo, e ai posti di lavoro che assicurava (perché poi di questo parliamo e allora, a guardar bene, il classismo non ne esce poi tanto depotenziato, quanto alimentato). E tanti saluti anche agli assurdi licenziamenti di dipendenti che si sono rifiutati di tagliarsi i capelli in un certo modo, o di levarsi i piercing, o che non sono stati assunti per via dei troppi tatuaggi sul collo e sulle mani. Di brutto c’è che sparendo le divise, dai completi alle salopette, sparisce anche il solo strumento rimasto a nostra disposizione per segnare una linea di separazione tra lavoro e vita privata.

 

Quando, qualche anno fa, si discusse dell’abrogazione dell’obbligo di cravatta per gli uomini e di tacchi per le donne non solo al venerdì, si ragionò proprio di questo: siamo sicuri che ne guadagneremo in libertà? Non servono, questi torturanti accessori, a farci tirare un sospiro di sollievo quando ce li sfiliamo, a giornata finita? E non è importante far sì che quel sospiro coincida con la fine delle ore di fatica, di modo che ci resti ben impresso che smettere di lavorare ci fa bene? Quei dubbi, ora che il Covid ripristina distanze e annulla differenze, tornano fondamentali. Sarà importante ricordarli quando ci troveremo a ridisegnare il diritto del lavoro, operazione che dovrà stabilire precisi criteri e norme per tenere la produttività confinata a un ambito preciso – alla smania iperlavorista, dopotutto, viene da giorni attribuita una responsabilità cruciale nella sottovalutazione del coronavirus (cara Lombardia, come ne uscirai a pezzi da tutto questo, assai più di quanto meriti). L’Atlantic ha raccolto pareri di sociologi e psicologi, che sembrano tutti felicemente in attesa di vedere i lavoratori emancipati dall’etichetta, e neanche mezza esitazione su quello che perderemo in autorevolezza e rispetto delle gerarchie, e su come potrebbe rivoltarcisi contro in forma di un’ennesima, paralizzante pandemia di egocentrismo.

 

Se due anni fa le cause della morte dell’abbigliamento erano individuate nel disinteresse dei millennial verso il vestito buono (dateci un wifi e un paio di cambi e governeremo il mondo, naturalmente da una scrivania sudata ad Harvard) e nella fine del fast fashion per ragioni di insostenibilità ambientale, adesso a determinare quel decesso saranno i cascami dello smartworking. Se la moda ne uscirà musealizzata o riconvertita è presto per dirlo, o forse soltanto troppo triste.

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