Anna Wintour si è mostrata su Instagram con i pantaloni della tuta, e se n’è discusso molto (Instagram)

Come (non) ci vestiremo

Fabiana Giacomotti

La difficile arte di provarsi un pantalone, una gonna, un maglione. Il rito e il costo della sanificazione

Niente amici, zero allegre brigate di signore a darsi manforte fra le relle e gli scaffali, mentendo anche un po’ sull’effetto del pantalone nero che in realtà, dovremo dircelo prima o poi, è un colore che non sfina tutto quel che si crede. Finiremo soli, davanti allo specchio del sarto, attesi su appuntamento la sera tardi come le milionarie russe o le principesse saudite dei tempi andati del globalismo senza se e senza ma che occupavano le boutique di Forte dei Marmi fino all’alba per poi far pagare il conto in contanti dall’assistente in giacca nera, mentre noi dovremo contare ogni euro. Saremo attesi e però anche riveriti come la contessa di Greffulhe e il cugino, Robert de Montesquiou, che ogni tanto prendeva il posto di Charles Frederick Worth per disegnarne gli abiti e anche perché s’è capito che i cugini primi sono permessi, alle scarne riunioni familiari ovunque si tengano, mentre i cantori delle glorie familiari no, dunque niente Proust nei paraggi a lasciare traccia delle nostre toilette, che poi non ce n’è neanche più bisogno perché bastano i selfie. Sta circolando in questi giorni qualche foto delle prime riaperture di atelier, dunque non bottega ma manifattura che è già provvista di patenti di Palazzo Chigi, fra gli account delle influencer sempre più provate dalla mancanza di eventi e di “progetti”, cioè di pubblicità per i brand in crisi di liquidità che sospendono gli affitti ovunque oppure chiudono proprio i punti vendita, come H&M (sette negozi in Italia, quasi centocinquanta dipendenti in cassa integrazione).


Finiremo soli, davanti allo specchio del sarto, attese su appuntamento la sera tardi come milionarie russe o principesse saudite


 

Il mondo della moda e del vestire va capovolgendosi: le multinazionali annunciano la sospensione della distribuzione di dividendi e si preparano a multipli decisamente inferiori alla media del 10 che per oltre un decennio ne ha contrassegnato l’ascesa, mentre è possibile che per i piccoli, piccolissimi artigiani, espressione del localismo di stampo maslowiano a cui stiamo affidando le nostre scarne sicurezze, inizi la stagione della riscossa. Cercheremo la prossimità anche nel vestire e la sicurezza nella provenienza di tessuti e sopporteremo l’odore acre e agliato dell’ozono che, s’è capito, è uno dei gas più efficaci per la famosa sanificazione dei capi che tanti hanno liquidato come una sciocchezza e che invece sta togliendo il sonno a tutto il comparto, quei centotremila negozi già ampiamente provati dalla crisi del 2008 e dalla concorrenza del fast fashion per il decennio successivo. Anche accantonando la questione non secondaria della disponibilità economica, è improbabile che fare acquisti torni ad essere un’attività divertente se prima di accedere a una boutique si è costretti a fare un’ora di coda, esposti allo sguardo altrui, e una volta dentro a toccare poco e nulla e solo con i guanti, e guai a far passare la maglia davanti alla bocca. Sterilizzare gli abiti e gli ambienti è un problema vero, costoso e gravoso sia per le grandi catene che si confrontano con la turnazione dei camerini e l’oggettiva difficoltà di far provare gli abiti con la mascherina addosso e per un tempo limitato, sia per le boutique di lusso, che in nessun caso possono permettersi di tenere una percentuale di abiti da destinare al solo fitting, cioè al veloce deterioramento casomai volessero sanificarli con le stesse misture alcoliche usate per le mascherine in Tnt o anche con i raggi Uv, una delle tante soluzioni che rimbalzano fra un buyer e l’altro in mancanza di uno standard unico. In questi giorni ne abbiamo sentite di ogni, dall’ignorante totale che vorrebbe usare il vapore come ha fatto fino a oggi per stirare i capi sgualciti dalle clienti e creando dunque l’ambiente ideale per la proliferazione del virus, fino al cinico che suggerisce di mettere invece sotto contratto un esperto, pagandolo bene, e fargli dichiarare per esempio che dal cashmere il virus se ne va dopo trenta minuti e dal jersey acrilico dopo venti.

 

Stefano Beraldo, amministratore delegato di Ovs che il Mise ha consultato prima dell’emanazione dell’ultimo decreto, da qualche settimana ha già riaperto il reparto bimbo e neonato, e ci dice di aver azzerato la questione camerini semplicemente chiudendoli: non si prova niente fino a nuovo ordine. Gli eventuali resi verranno messi da parte e sanificati. In futuro si vedrà, ma è improbabile che per un po’ di tempo, cioè si suppone fino all’introduzione del vaccino, si potrà provare altro che gonne e pantaloni: “Nulla che sfiori il viso”, dice. Gianluca Isaia, alta sartoria da uomo e in genere su appuntamento e su misura da sempre, sta invece e appunto sperimentando l’ozono, “ma non escludo di mettere alla prova anche i raggi ultravioletti”, osserva, conscio che i tessuti preziosi ma di certo non delicatissimi che usa possono ben essere esposti agli Uv senza subire danni e che la sua tipologia di cliente debba essere rassicurata senza badare a spese. Da oggi al 18 maggio c’è tempo per prepararsi a riaprire, e anche per valutare l’investimento che si renderà necessario per farlo, e si tratta purtroppo dell’ennesimo budget da stanziare dopo due mesi di mancati incassi e di conti da pagare. Ma riaprire si deve e a ogni costo, anche perché gli introiti del commercio di moda online, che ormai tutte le boutique e i brand possiedono, non bastano per compensare la vendita fisica, soprattutto dei capi molto costosi che sono anche quelli a più alto margine o, come osserva sempre Isaia, dei capi su misura.


Il ritmo imposto da un sistema che ha mostrato di colpo tutti i segni del proprio deterioramento. L’ha riconosciuto perfino Anna Wintour


 

Ha un bel mostrarsi sul proprio account Instagram, il ceo di Yoox Net-à-Porter Federico Marchetti, dichiarando che le vendite di top e camicie dell’ecommerce hanno avuto un boom nell’ultimo mese grazie allo smartworking che ha incollato milioni di persone in tutto il mondo alla piattaforma Zoom, costringendoli a mostrarsi in ordine almeno dalla cintola in su (“indovinate che cosa indosso sotto”? scrive Marchetti sfoggiando un’inattesa malizia). Comunque, dopo due mesi di sciatteria concessa, anzi incoraggiata come corollario invalidante dello #stareincasa, è tornato il momento di uscire e dunque di vestirsi per davvero e soprattutto per intero. Camicia-cravatta-pantaloni-scarpe, taglio e piega ancora no, manca ancora un mese e fra gli account degli amici se ne percepisce il gran bisogno. La fase due incipiente prevede il recupero dei pantaloni in luogo della tuta sgualcita che abbiamo indossato per otto settimane indissolubilmente e questo nonostante il direttore di Vogue America Anna Wintour, seduta alla scrivania nella casa di Long Island in uno scatto che ha fatto storia, ci abbia mostrato che si può fare, che it’s alright riunirsi via video con la camicia fresca e croccante e a favore di inquadratura e, sotto, nel buio, i pantaloni in tessuto sintetico anni Settanta con la striscia bianca sul lato genere Chas Tenenbaum.

 

Nell’ultima settimana sono riapparsi i servizi di moda nei settimanali femminili, certamente scattati prima dell’emergenza ma anche selezionati e riassemblati per seguire il cosiddetto sentiment del momento, e le foto che vediamo pubblicate ci sembrano proprio dare ragione all’analista di tendenze Li Edelkoort quando, già qualche settimana fa, ci diceva che, almeno per un paio di anni, la gente avrà bisogno di uniformità anche nell’abbigliamento: tutti uguali, quasi in divisa e soprattutto senza dare nell’occhio o eccedere in stravaganze ed eccentricità, simbolo di cattivo gusto a fronte delle infinite fragilità, sostantivo ubiquo del momento, di cui il mondo apparentemente inarrestabile ha dato prova. Questa presunta ricerca di modestia è un bel guaio perché la moda di questa primavera ormai molto avanzata sarebbe stata tutta una manica modello Rinascimento raffaellesco e grandi stampe a fiori e l’ultima volta che siamo entrate in una boutique, a metà febbraio, ci è sembrato di aver visto anche delle ricche pennellate d’oro sulle scarpe. Ed ecco un altro problema che i bouticcari, come si chiamavano negli anni Settanta in cui iniziarono ad arricchirsi, si trovano ad affrontare: i magazzini pieni di abiti pensati per un altro mondo e altri modi di vivere, oltre all’evidenza di un’intera stagione mancata.


Sterilizzare gli abiti e gli ambienti è un problema costoso per le grandi catene. Turnazione dei camerini e prova degli abiti con la mascherina


 

Siamo entrati in lockdown con i piumini e ne usciamo in tshirt senza essere mai passati dal trench di gabardine, capo di tendenza di stagione, al punto che una delegazione del settore ha fatto una serie di telefonate ai direttori delle principali testate, Emanuele Farneti di Vogue in testa, chiedendo loro la cortesia di tenere i servizi di moda estiva in pagina fino a tutto agosto per aiutarli a smaltire l’invenduto e com’era fino a vent’anni fa, cioè prima che la smania delle multinazionali del lusso di fare cassa e utili accelerasse a dismisura il processo produttivo con dieci collezioni l’anno (in realtà, sempre quattro ma moltiplicate e spezzettate fra eventi, campagne e richiami per sembrare tali), sfilate e presentazioni sine die e in generale un ritmo insopportabile per tutti. E’ quanto ha detto, in tono più aulico, anche Giorgio Armani nel suo manifesto pubblico per il recupero di “ritmi sostenibili” nel comparto moda, straordinario esempio di morale che incrocia esigenze distributive vere e non indifferibili e che infatti tutti hanno sottoscritto con entusiasmo, e non solo perché era veramente ridicolo mettere in vetrina i cappotti a giugno, ma perché era ancora più umiliante comprarli.


La fase due incipiente prevede il recupero dei pantaloni in luogo della tuta sgualcita che abbiamo indossato per otto settimane 


“Solo i cretini correvano a comprare l’inverno prima ancora di andare al mare”, dice l’amico buyer Beppe Angiolini che però, come tutti prima che Armani fischiasse il fine partita, per anni ha seguito, forse obtorto collo ma sempre sorridendo, il ritmo imposto da un sistema che ha mostrato di colpo tutti i segni del proprio deterioramento. L’ha riconosciuto la stessa Wintour in una conversazione via Instagram con Naomi Campbell (“no filter with Naomi”, abbastanza imperdibile), facendo anche il mea culpa che, insieme con la domesticità estetica, pare sia la seconda tendenza di questo disgraziatissimo periodo di incertezza: il lockdown era una pausa di riflessione necessaria, ha detto, contro la moltiplicazione apparentemente inarrestabile di eventi, sfilate, collezioni e, vorremmo aggiungere, contro il burn out generale. “Ora abbiamo l’opportunità e il tempo per celebrare l’arte della moda”, ha detto, assestando anche un formidabile colpo alle settimane della moda, con le due decine di migliaia di ospiti, i suoi voli aerei, le tonnellate di kilowattora consumate per sfilate, eventi, favori dati e restituiti fra media e brand e soprattutto la sua apparente infinita moltiplicazione fra donna, uomo, collezioni resort, pre-fall, richiami, accessori e non ricordiamo più cos’altro perché, ammettiamolo, due mesi di iato fra un volo aereo e l’altro per guardare spesso il niente ci hanno restituito una faccia riposata.

 

“Siamo tutti d’accordo che bisogna mostrare di meno e puntare di piu’ sulla sostenibilità e la creatività e meno sul lusso, a cui io per prima ho ceduto. Questo terribile evento ci ha fatto capire che dobbiamo cambiare e che saremo in grado di farlo”. Dunque, piccoli business altamente innovativi o anche grandi aziende disposte a mettersi in discussione, senza basarsi sui soli rapporti di potere: Saint Laurent è stata la prima maison a seguirne il monito, due giorni dopo cioè lunedì scorso, facendo sapere per bocca della sua amministratrice delegata, l’italiana Francesca Bellettini, che d’ora in poi non seguirà più i calendari prefissati e stabiliti dalle diverse “Camere della Moda” o Chambres Syndicales, ma che seguirà le proprie esigenze commerciali e il proprio estro. La sarabanda è finita.

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