Un chip che mette in conflitto sicurezza e libertà

Massimo Adinolfi

Ma nemmeno sotto pelle troverà tutta la nostra vita interiore. Le nuove tecnologie di sorveglianza viste da un filosofo

C’è poco da vergognarsi: la soglia che stiamo attraversando è la pelle. Adamo si nasconde alla vista del Signore, perché, dopo aver mangiato il frutto proibito, si vede nudo sotto il suo sguardo, ma la scena andrebbe oggi completamente riscritta: non c’è più bisogno di uno sguardo per sorprendere l’uomo tra gli alberi del giardino: basta un chip sotto pelle. Il chip può anche misurare la temperatura corporea, e probabilmente stabilire persino se hai freddo oppure no. Può sorvegliarti, mentre ti aggiri nel giardino delle delizie, molto meglio di quanto non facesse il Signore con Adamo, al quale dopo tutto è costretto a domandare: “Dove sei?”, il che vuol dire che non disponeva di un geolocalizzatore.

 

Per lo storico israeliano Yuval Noah Harari, l’autore di Sapiens, di Homo Deus, e, da ultimo, di 21 lezioni per il XXI secolo, uscito l’anno scorso, il passaggio che stiamo vivendo ha carattere epocale perché, per la prima volta nella storia dell’umanità, è possibile non solo “tracciare, monitorare e manipolare” ciascuno di noi ventiquattro su ventiquattro, non solo processare tutti i dati raccolti grazie a potenti algoritmi, ma anche infilarsi sotto pelle e sapere cosa avviene là, nei meandri del corpo – e, par di capire, della psiche –: “Finora, quando il dito toccava lo schermo dello smartphone e faceva clic su un collegamento, il governo poteva sapere esattamente su cosa il tuo dito stesse cliccando. Con il coronavirus, il focus dell’interesse si sposta. Ora il governo può sapere la temperatura del dito e la pressione sanguigna sotto la pelle”. Ora si può. Naturalmente, la grande questione è cosa resta delle nostre libertà e dei nostri diritti fondamentali quando sono sorvegliati da un chip, e se la protezione giuridica, alla quale gli abitanti di un paese democratico come il nostro sono dopo tutto affezionati, sarà sufficiente a mettere un argine. Prima però di affrontare questa questione, bisogna – credo – sollevarne un’altra circa il modo in cui Harari, nel suo articolo sul Financial Times, descrive quello che avviene sotto la nostra tenera, rosea, delicata superficie cutanea.

 

Le nuove tecnologie della sorveglianza – spiega Harari – non consentono solo di sapere se io sto guardando la Cnn oppure Fox News (ho lasciato l’esempio in originale, perché non sapevo cosa mettere, in italiano, al posto della Cnn, mentre ho più di un’idea su come rimpiazzare Fox News), ma anche il numero dei battiti, o la frequenza respiratoria. Dai parametri vitali è possibile quindi capire se un certo programma televisivo mi fa arrabbiare oppure divertire, commuovere o annoiare: “E’ cruciale rammentare – precisa al riguardo lo storico – che tanto la rabbia quanto la gioia, tanto la noia quanto l’amore sono fenomeni biologici, proprio come la febbre o un colpo di tosse”. E se sono fenomeni biologici, il loro controllo è ormai garantito.

 

Ora, Harari ha ragione: si tratta di un punto davvero cruciale. E però come faccio a rammentarlo, a tenerlo a mente, se non sta scritto da nessuna parte? Perché Harari deve aver pazienza, ma non c’è scienziato al mondo che possa affermare che la rabbia o la gioia siano fenomeni biologici. Il fatto che quando mi arrabbi mi sale il sangue alla testa, e la pressione schizza su non vuol dire che la rabbia “sia” il sangue alla testa. Il fatto che vi sia corrispondenza fra certi valori fisiologici e certe emozioni non significa affatto che quelle emozioni non siano e non possano essere nient’altro che quei valori. Proprio no.

 

Mi sia consentito, sono giornate in cui siamo tornati ad apprezzare le competenze, e allora anche io sfoggio la mia: non solo nessuno può affermare (tanto meno rammentare, come se fosse una verità stabilita) che la mente è il cervello, ma vi sono buoni motivi per dire che la mente proprio non è il cervello (e che, a seguire, un pensiero non è una scarica neuronale, e un’emozione non è una banale alterazione del livello pressorio, o una faccenda puramente chimica). Dove c’è indubbiamente una relazione (non siamo angeli disincarnati: senza cervello non c’è pensiero, ahimè), Harari stabilisce però un’identità. E sbaglia.

 

Ma non è che io, non sapendo cosa fare in questa quarantena che non accenna a finire, stia qui a fare le pulci a Harari. E’ che si tratta di un errore concettuale assai grande e pure assai istruttivo, ed è importante spiegare bene perché. A lungo, infatti, i filosofi hanno ragionato così: se la mente non è il cervello, è un’altra cosa, che non può stare nel cervello né in alcun altro luogo. Appartiene dunque a un diverso piano della realtà. Non è naturale; è soprannaturale. Non è fisica; è metafisica. Non è materia; è spirito. Harari, presumo, conosce solo questa filosofia, e la respinge (giustamente). Si era ancora in pieno Settecento, quando già i sogni della metafisica venivano trattati come i sogni di un visionario (da Kant): non è questione di continuare a sognare, questo è chiaro, ma dire, contra Harari, che la mente non è il cervello non implica affatto installarsi su un altro piano della realtà.

 

Installiamoci, piuttosto, un’altra volta, davanti al notiziario della Cnn (vabbè: non è la Cnn, ma fa lo stesso): dove volete andare, peraltro, di questi tempi? Bene, se passa la notizia di Boris Johnson positivo al coronavirus, quel che succede è: che a me scappa una parola politicamente scorretta; mio figlio mi legge al volo l’ultima battuta di Spinoza.it sul nuovo salto di specie del virus; mia moglie, invece, chiede di far silenzio, e intanto si volta verso di me e appare preoccupata; mia figlia commenta in chat con le amiche, mentre l’altro figlio continua imperterrito a manipolare il cubo di Rubik, dopo un po’ io gli chiedo perché non segue il telegiornale e lui, ovviamente, fa spallucce. Orbene, l’emozione che i miei parametri vitali “registrano”, o a cui corrispondono, è il precipitato dell’intera scena. E il suo significato non sta affatto sotto la mia pelle, ma continua nella trama delle relazioni in cui è coinvolto. Non ha una localizzazione precisa: né nel tempo né nello spazio (perciò il fisiologo non può acchiapparla). Ed è anche presumibile che, interrogato, in momenti diversi risponderei cose diverse circa quel che ho provato alla notizia della positività del premier inglese (per quanto abbia un’opinione abbastanza ferma sul suo conto). Non solo, ma anche i miei familiari, su cui la mia reazione si propaga (loro me la leggono sul volto, oppure la colgono dal minimo sobbalzo che ho fatto in poltrona) è probabile che arrivi un’eco diversa, più distinta o meno distinta, e sfumature di senso ben differenti. Ad esse è altrettanto probabile che io risponda a mia volta, con piccoli aggiustamenti della mia reazione, che come uno sciame sismico certo non si risolve in un’unica scossa.

 

L’ho fatta lunga: l’emozione, ma intendo dire tutta la nostra vita interiore, emotiva e intellettuale, non è affatto situata under my skin (non me ne voglia Sinatra): una parte è lì, un’altra parte però è sparpagliata tutta intorno a noi. Ed ecco perché scovare l’errore di Harari è importante. Perché certo i parametri vitali dicono molto, ma tanto più dicono quanto più sono rimpiccioliti, irrigiditi, dimidiati i rapporti sociali, quanto più chiuso è il sistema in cui sono inserito. Viceversa, quanto più è esso aperto, vago, ricco e indeterminato, disponibile alla novità, tanto più ridicola sarà la pretesa di sapere cosa mi passa per la testa misurando quello che passa sotto la mia pelle. Se vuoi difendere l’individuo (ed io lo voglio, almeno quanto Harari) difendi il mondo che ha intorno. Lo psicologo J. J. Gibson diceva: non chiederti cosa c’è dentro la testa, chiediti piuttosto dentro cosa è la testa. Dove si trova (e ancora nessuno era ristretto per settimane in casa propria). Alla lunga, se “individualizzi” l’individuo sino al punto di separarlo da tutto quello che ha attorno, perdi la società, ma perdi pure l’individuo.

 

Perché il punto è esattamente questo: non fin dove possono arrivare le nuove tecnologie di sorveglianza coi loro microchip e i controlli da remoto. Perché è sicuramente tanto, ma è tutto solo se noi lasciamo che, allo stesso tempo, trasformino il mondo – la vita, il lavoro, la famiglia, lo svago, lo sport, la politica – in un ambiente ristretto, delimitato, calcolato. Se non si comprende che la libertà è una proprietà del mondo in cui viviamo, prima ancora degli individui che lo abitano, non riusciremo a salvarla.

 

Eppoi, già che ci sono, voglio segnalare un altro grande errore. Harari dice: attenzione, se mettiamo gli uomini dinanzi alla scelta tra sicurezza e libertà, tra salute e privacy, sceglieranno sempre la sicurezza e la salute, a detrimento dei diritti e della libertà. Bisogna dunque dimostrare che è una falsa scelta, e che possiamo rafforzare insieme l’una e l’altra, la sicurezza e la libertà, puntando non sui maggiori poteri al governo, ma sull’empowerment dei cittadini, dando loro più informazioni, più conoscenza, più scienza.

 

E va bene, mi considero un figlio dell’illuminismo anch’io, e anche se temo di sovrastimare gli effetti del rischiaramento intellettuale confesso comunque di contarci ancora. Educazione, formazione, istruzione fanno del resto parte del mondo libero e aperto che difendevo prima. Ne fa parte anche quello spirito cosmopolitico in cui Harari confida, augurandosi che si moltiplichino i motivi di fiducia e di solidarietà globale. Però stavolta torno io dal mondo, dai media e dalle sue istituzioni all’individuo, perché mi rammento e tengo a mente la terribile leggenda del grande inquisitore, nei Fratelli Karamazov. Lì la scelta è fra il pane e la libertà, ma il grande inquisitore, proprio come Harari, non ha dubbi sul fatto che gli uomini preferiranno togliersi di dosso il peso e l’angoscia della libertà, pur di aver salva la vita. Ora è strano che un liberale possa trovarsi dalla stessa parte del vecchio cardinale di Siviglia. Forse, detto tutto quel che dobbiamo dire e sperare circa gli sforzi della comunità internazionale, alla fine riconosceremo un liberale anche da ciò, che messo di fronte alla scelta, vera o falsa che sia, fra la sicurezza e la libertà, per quanto tragica quella scelta potrà essere, sceglierà la libertà. E crederà di non essere il solo, crederà che gli uomini, sotto la pelle o da qualche altra parte, hanno sempre un punto oltre il quale non intendono andare, pur di difendere la loro dignità.

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