Particolare de “La nave dei folli” (1494 circa) di Hieronymus Bosch

Sei notti senza fine

Daniele Mencarelli

Io e altri cinque matti, internati come me nella stanza di un ospedale psichiatrico. Dall’alba al tramonto, è la paura che ha organizzato questo nostro terribile viaggio

Per questa estate abbiamo scelto di chiedere ad alcuni scrittori qual è stato il viaggio che ha cambiato loro la vita, il viaggio di cui portano ancora i segni addosso. Fuga, meta sognata, coincidenza, scoperta casuale: il luogo, ma anche il percorso di per sé, i chilometri a piedi, in bicicletta o in auto, il partire per partire, l’avanzare in una terra nuova. Il cercare e trovare (cose che abbiamo immaginato o visto da qualche parte in altra forma, persone che ci aspettiamo trepidanti di incontrare) e lo scoprire. In tanti modi un viaggio può farsi memorabile e degno di essere raccontato. E in modi diversi gli scrittori racconteranno il loro viaggio ai lettori del Foglio. Abbiamo già pubblicato: “Un rave per Lisbona” di Vanni Santoni (il 10 luglio), “Danzare, forse, volare via” di Antonella Lattanzi (il 16 luglio), “Nudo sulla mia Saab” di Aurelio Picca (il 23 luglio), “L'India dei miei sospiri” di Gaia Manzini (il 28 luglio), “Giro del mondo in prima classe” di Giacomo Papi (il 30 luglio), “La Grecia vista dal Babilonia” di Ilaria Macchia (il 4 agosto), “Fuga all’Avana” di Marco Archetti (il 7 agosto), “L’impostore di Reykjavík” di Claudio Giunta (10 agosto), “In fondo alla Crimea” di Corrado Beldì (il 14 agosto), “Sulle tracce della Madonna” di Camillo Langone, “A caccia di Jaromir Jagr, trenta metri sopra Calgary” di Daniele Rielli (23 agosto), "Qualche birretta in Russia", di Paolo Nori.

 


 

Il viaggio non comincia con una partenza, ma con un risveglio.

 

Dentro un corpo che non risponde ai comandi, è la sedazione massiccia, ma spiegarsi la ragione non cambia la sostanza: per minuti eterni le mie mani appartengono a un altro, che non le muove, anche la voce non vuole rispondere.

 

E dire che io vorrei urlare, perché il viaggio è cominciato con un risveglio che puzza di bruciato. A bruciare sono i miei capelli. Un tipo, gli occhi anneriti di pazzia, è al mio fianco, come niente fosse passa su di me la fiamma di un accendino, il calore che scalda un lato della testa.

 

Provo a spezzare il sortilegio, ma continuo a essere prigioniero dentro un corpo estraneo.

 

Mi salvano i miei compagni di viaggio, che ancora non conosco.

 

Uno, con riporto rossiccio su cranio senza capelli, si è prodotto in un urlo da femmina, uno strepitio da signora terrorizzata.

 

All’urlo risponde una comparsa, di bianco vestita. L’infermiere ha una pancia rotonda come il mondo, non si affretta per togliermi dalle grinfie del pazzo.

 

La pazzia è il Tour operator che ha organizzato il viaggio.

 

I partecipanti sono quattro, io il quinto, di una stanza che può contenerne in tutto sei.

 

Due file di letti, il tipo che stava dando fuoco ai miei capelli è il compagno più prossimo, il mio vicino di materasso.

 

Finalmente, falange dopo falange, arto ad arto, torno proprietario del mio corpo, di tutto tranne gli occhi: vorrei che si riempissero di lacrime, vorrei piangere, ma non è ancora il momento.

 

L’infermiere, il mio compassato salvatore, mi conduce alla prima visita del viaggio. Mi ritrovo di fronte a un medico rugbista che mi guarda come si guarda una formica da schiacciare.

 

La comunicazione è breve, formale: causa mia escandescenza, il medico del pronto soccorso che mi ha accolto ieri sera ha deciso di regalarmi una settimana di t.s.o. presso il reparto psichiatrico dell’ospedale. Trattamento sanitario obbligatorio. Da oggi, martedì 14 giugno 1994. Sette giorni. Formula all inclusive. Con l’avallo del mio comune di residenza e del tribunale competente. Poi mi chiede i trascorsi clinici, gli psicofarmaci, il mio praticantato da disturbato mentale.

 

Finalmente piango, in stanza, sul mio cuscino. Provo a chiedere perdono, faccio di tutto per tornare a casa mia, non voglio essere imprigionato per sette giorni, ma il dado oramai è tratto, il viaggio è partito.

 

I compagni di stanza si presentano. Il più loquace è l’uomo con urlo di ragazza. Si chiama Gianluca, frocio e bipolare, si esibisce in un corteggiamento, prima romantico, poi furioso. Quando capisce che sono etero cambia verso. E’ simpatico, lui sta nella fase bianca in questo periodo, vivrebbe di sesso e dolci, poi c’è la parte nera, quella è tremenda. “L’urtima vòrta so’ arivata a pesa’ quarantasette chili”. Gianluca è un t.s.o., come me. Ha picchiato la madre, e ora sta qui. 

 

Mario era maestro elementare, parla un italiano preciso, bello da sentire, ha i capelli ricci e alti sopra la testa, quando si esprime mostra quella commistione di cultura ed esperienza umana che dà per risultato la saggezza. Mario, psicotico, sembra la bontà fatta persona. Pino, l’infermiere a corredo della pancia, mi ride dietro. “Se vede proprio che c’hai vent’anni, della vita nun c’hai ancora capito ‘n cazzo, se c’è uno pericoloso in stanza vostra è proprio Mario”. Chiedo, esigo di sapere dove si nasconda la sua pericolosità, ma Pino ha finito il turno.

 

Nel letto di fronte a me c’è Alessandro, catatonico, il padre, un metro e mezzo d’altezza per uno di larghezza, ripete a cantilena il momento in cui il figlio è sparito dentro la statua di carne che ora è di fianco a lui.

 

Alessandro non parla, non si muove, non mangia. Guarda fisso davanti a sé, ovvero mezzo metro sopra la mia testa. Poi il padre piange, vorrebbe spezzare la maledizione che si è presa il figlio, ma non sa come fare.

 

Seconda visita guidata. Un altro psichiatra. Sembra buono come il pane. Chiede con gentilezza, sincera empatia, la ragione della mia escandescenza, quella che mi è valsa il viaggio. Inizio a disporre la scena, un rappresentate di climatizzatori: il sottoscritto, un appartamento modesto a Cisterna di Latina, due pensionati, un climatizzatore dual-split 12.000 BTU appena venduto, giusto il tempo di riempire e firmare il contratto. L’attore inaspettato esce da una stanza laterale: il figlio dei due pensionati, dall’aspetto un quarantenne malmesso, magro, bianco. Si siede accanto a me, vicinissimo. Io continuo a riempire il contratto con i dati dei due pensionati, mentre con la mente calcolo la provvigione, sei milioni di vendita, a me spetta il dieci per cento, facile facile: seicentomila lire in tasca. Ma una scena, per essere tale, deve fare i conti con l’imprevisto, con l’agguato del destino. Il quarantenne-figlio inizia a carezzarmi i capelli, mi sorride, un bambino dentro un uomo, il pensionato-padre sente di dover spiegare: il ragazzo era ingegnere, lavorava alla Fiat, in Polonia, per il ghiaccio un incidente stradale, poi il coma, il risveglio come un salto indietro nel tempo, ecco cosa è rimasto. Il figlio, intanto, continua a carezzarmi, liscia i capelli al lato della testa, quelli che qualche ora dopo prenderanno fuoco per mano del mio vicino di letto.

 

Il medico ascolta il racconto, emozionato lui, stravolto io. Continuo.

 

In quell’attimo, sotto quelle carezze inaspettate, come una frattura, la pelle che si lacera, il petto spaccato.

 

Ma tutto, proprio tutto, a che cazzo serve? Se la vita è questo scorrere tra tempo e destino, per arrivare snervati, corpi vecchi, nella migliore delle ipotesi a una morte ottantenne, a che cazzo serve la vita?

 

No.

 

Se l’insignificanza è la radice di tutto, se siamo qui, ora, agglomerati di chimica per caso consapevoli, allora vivetela voi questa cosa. Dateli voi i figli in pasto al mondo, fateli studiare, mangiare, nutriteli a speranza, e poi siate disposti a vederveli restituiti come bambini senza senno. 

 

Alla fine, da quella casa, dai due genitori pensionati, il mezzo figlio rimasto, sono scappato, di corsa, giù per le scale come se dietro di me ci fosse un incendio pronto a mangiarmi. Per strada, dentro un cassonetto dell’immondizia, è finita la mia carriera di rappresentante di climatizzatori, assieme alla valigetta ventiquattrore e alla cravatta.

 

Se non esiste significato, allora meglio morire subito.

 

Di corsa a casa, in tasca tra grammi di cocaina per facilitare il compito, poi una bottiglia di whisky senza fiato. Ma il coraggio non è uscito. Allora via a distruggere tutto, mobili e televisore, tutto quello che capita a tiro. Di solito, chi non ha il coraggio di uccidersi rischia di diventare assassino. Mio padre arriva a casa, guarda lo spettacolo, crolla come una quercia mangiata da dentro.

 

La nottata mi ha fatto staccare il biglietto di questo viaggio regalo.

 

Il medico ha ascoltato tutto, continua a sembrarmi buono. La seconda visita del viaggio si risolve in saluti di cortesia.

 

Madonnina. Il pazzo che mi ha donato una chiazza senza capelli al lato della testa si chiama Madonnina. Non è il vero nome, ovviamente. Nasce dal suo scheletrico vocabolario. Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia! Solo questo gli esce dalla bocca. Come altro chiamarlo?

 

Intanto, anche il sesto letto viene occupato. Giorgio. Intorno ai trent’anni. Un gigante, il suo braccio è grande come la mia gamba. Demente, a lui non gliel’hanno mai detto in faccia, i medici parlavano con il nonno, poi lui è morto. Giorgio m’invita sul suo letto, per un istante vedo la mia vita finire dentro la stretta delle sue mani. Invece vuole solo fare amicizia. Mi fa vedere un pezzetto rinsecchito di hascisc. “Poi se lo fumamo”, mi dice. Respiro, tranquillizzato. Ma dura poco. Guarda qua. Il gigante mostra il suo braccio, dal polso alla spalla, se dovessi contare tutti i tagli il mio viaggio durerebbe molto più della settimana gentilmente offerta.

 

C’entra una madre. Perché nella vita degli umani, un padre o una madre c’entrano sempre, per forza. Lei ha avuto la colpa di morire senza dirglielo, lui aveva dieci anni appena. A una madre non dovrebbe essere permesso dalle leggi della natura di morire senza dare ai propri figli il sacro tempo necessario per abituarsi all’idea. Se mai possa esistere un tempo così grande. Quando Giorgio inizia a piangere, un bambino montagna scosso dai singhiozzi, intravedo una causa comune agitarsi dietro il destino di noi viaggiatori in una stanza. C’entra l’infanzia, come punto di partenza, come punto di ritorno. Giorgio è rimasto bambino, a fissare la morte della madre, quell’altro, l’ingegnere causa di tutto, bambino c’è tornato. L’infanzia ci condanna a una felicità che rivedremo di rado, ma che sentiamo esistere. Perché c’è. Ma l’infanzia è anche il luogo dove i meno fortunati vivranno la sciagura della propria esistenza, senza averne la consapevolezza, tantomeno strumenti e anticorpi. Certe ferite la vita dovrebbe riservarle solo agli adulti, se la carne è troppo fresca si rischia d’impazzire, la pazzia non è un talento speciale, dentro ce la portiamo tutti, semmai è il destino a fare la differenza, a imporre ad alcuni certe esperienze che non concederanno mai un vero oltre.

 

La cena dell’ospedale è al sapore di nulla. La minestrina non sa nemmeno di dado, la carne come secondo è una suola di cuoio antico. Per fortuna mio fratello mi ha portato due scatole di biscotti al cioccolato.

 

I miei compagni di viaggio mi fanno paura, in altri momenti compassione, in altri ancora rabbia. Il cambio turno ci porta in dote un’infermiera di nome Rossana, si affaccia solo per spegnere la luce e darci la buonanotte. Non ho l’orologio, ma saranno al massimo le nove.

 

Il mio rapporto con il sonno è malato, non è l’unico della mia vita a esserlo. Non invidio la ricchezza, né altra dote mondana, né umana, tantomeno fisica. Invidio però la razza dei dormienti felici, addormentarmi una volta su un treno, sul divano di casa. Dio mio che invidia.

 

Ma in un reparto psichiatrico c’entra poco l’insonnia, come si fa a dormire mentre altri urlano, oppure si disperano dentro discorsi senza capo né coda, come si fa a farlo? E se qualcuno volesse farmi del male? Se questo qui di fianco, Madonnina, volesse riprendere il suo discorso di fuoco?

 

Mi tuffo nel corto corridoio del reparto, ecco Rossana, ci vuole tempo ma alla fine le mie implorazioni partoriscono il sonnifero agognato. E’ una pasticca piccolissima, verde, non vorrei che l’infermiera mi stesse prendendo per il culo.

 

Mi butto sul materasso e aspetto. Niente. I minuti scorrono ma quella specie di Zigulì in miniatura non sortisce effetti. Quest’attesa mi offre in pasto alla mente, fioccano le immagini delle ultime ore, mio padre steso a terra, la casa distrutta, poi il mare di strazio e pazzia accolto in questa stanza di reparto psichiatrico.

 

Eccola. L’infermiera Rossana mi ha dato un sonnifero vero.

 

La veglia lascia il posto alla chimica, gli occhi di colpo pesanti. Giusto il tempo di buttare un ultima volta gli occhi agli altri allettati, per fortuna sembrano tutti piuttosto calmi, ma ci resteranno per tutta la notte?

 

La paura, il terrore mi fa sentire improvvisamente freddo. Non ho il tempo di fare o pensare altro.

 

Il primo giorno del viaggio finisce in pasto a questo sonno sintetico.

 

Siamo appena partiti, di giorni ne mancano ancora sei, sei eternità da vivere, in tutto centosessantasei ore di permanenza forzata, vitto e alloggio compresi, dentro una stanza con cinque squilibrati, io il sesto. Buonissima estate.

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