Cuba, Avana (Foto LaPresse)

Fuga all'Avana

Marco Archetti

A un certo punto ho mollato i telefoni e ho comprato un biglietto di sola andata. A Cuba ho trovato il circolo della maionese, lo Zerinol e la scrittura di notti che hanno cambiato tutto

Per questa estate abbiamo scelto di chiedere ad alcuni scrittori qual è stato il viaggio che ha cambiato loro la vita, il viaggio di cui portano ancora i segni addosso. Fuga, meta sognata, coincidenza, scoperta casuale: il luogo, ma anche il percorso di per sé, i chilometri a piedi, in bicicletta o in auto, il partire per partire, l’avanzare in una terra nuova. Il cercare e trovare (cose che abbiamo immaginato o visto da qualche parte in altra forma, persone che ci aspettiamo trepidanti di incontrare) e lo scoprire. In tanti modi un viaggio può farsi memorabile e degno di essere raccontato. E in modi diversi gli scrittori racconteranno il loro viaggio ai lettori del Foglio. Abbiamo già pubblicato: “Un rave per Lisbona” di Vanni Santoni (il 10 luglio), “Danzare, forse, volare via” di Antonella Lattanzi (il 16 luglio), “Nudo sulla mia Saab” di Aurelio Picca (il 23 luglio), "L'India dei miei sospiri" di Gaia Manzini (il 28 luglio), "Giro del mondo in prima classe" di Giacomo Papi (il 30 luglio), "La Grecia vista dal Babilonia" di Ilaria Macchia (il 4 agosto).


“Il mare dell’Avana mi ha sempre fatto paura. All’Avana, però, quasi ogni strada conduce al mare, per cui tutte le strade, per quanto riguarda me, portano alla paura”.

Abilio Estévez

E così un giorno mi licenziai e lasciai l’ufficio della Telecom con la sua oscurità familiare per tuffarmi nella solarità promettente di un mondo nuovo: quello dei venditori di panini allo stadio. La libertà – pensavo – può assumere forme imprevedibili, ma intanto io indossavo una forma prevedibilissima: ventidue anni, senza una precisa identità, in fuga da ogni forza morale come Rimbaud. Era la selvatica estate padana del 1998, nasceva la Banca centrale europea, la mia amica Annalisa partiva per l’Inghilterra senza tornare, mio padre e mia madre procedevano con la separazione numero quattordici e io facevo il Grande passo numero uno: farla finita coi telefoni. Consegnai la lettera di dimissioni il primo aprile. La responsabile Rosanna, col suo laccato ciuffo-visiera che faceva ombra sul foglio, disse: “Me l’aspettavo”. In effetti, alla riunione del giorno prima, quella col sommo Capo area, Gran visir del sell out, mi ero segnalato per strafottenza perché avevo sghignazzato a una sua frase, questa: “Tra qualche anno faremo un mucchio di soldi costringendo la gente a camminare senza guardare dove va. La obbligheremo a tenere gli occhi fissi sul cellulare”. E’ che mi era sembrata una visione fantascientifica al servizio di un obiettivo idiota, poi ha sghignazzato la Storia e ha seppellito me, non il Gran visir, ma va bene così, negli anni ho fatto il callo alla mia fallibilità predittiva. Fallibilità che ha sempre riguardato anche le mie faccende personali, tant’è che se in quel momento qualcuno avesse prospettato il mio futuro avrei sghignazzato come un matto al sentirgli dire che di lì a pochi mesi, per colpa di un libro e di una briosa folata di incoscienza, avrei preso un aereo con destinazione L’Avana, Cuba. Non solo: che a L’Avana, Cuba, ci sarei rimasto per un anno e mezzo senza tornare mai a casa.

 

Avevo sgobbato duro e messo via qualche soldo grazie al lavoro notturno in una birreria. Quando non lavoravo, leggevo

Andò così: dopo il diploma, straniero a me stesso e impregnato di ribellismo post adolescenziale, avevo sgobbato duro e messo via qualche soldo grazie al lavoro notturno in una birreria, a un centinaio di weekend da cameriere e ai turni in un’impresa di pulizie. Quando non lavoravo, leggevo. Così ero venuto in contatto col poeta cubano Omar Pérez, fatalmente, proprio attraverso un libro. Omar poi l’avevo incontrato davvero, però in Italia, una sera in piazza Vittoria, a Brescia, perché in quei giorni era ospite di Mira, una sua amica che viveva in provincia, in una casa di campagna, insieme a un indiano cherokee e a uno stormo di uccelli che svolazzavano per l’aere domestico e scagazzavano indisturbati, e che trasformarono in un incubo l’unica notte in cui, abbozzolato in un’amaca, dormii lì. Avevamo parlato a lungo, la mattina seguente, io e Omar. Mi disse che si trovava all’estero da un po’, ma che la sua storia era un po’ complicata. Prima che me ne andassi mi pregò di portare dei medicinali a sua madre e mi affidò una sporta che conteneva cinque o sei scatole di aspirine, svariati antipiretici e dieci confezioni di Aulin. “Aulin, non sembra un cavaliere della Tavola rotonda?” aveva riso nel consegnarmela. Il mio primo contatto con Cuba fu questo: bustine, pastiglie, blister, l’immaginario farmaceutico del bisogno. Il secondo fu l’aeroporto José Marti, in cui atterrai un mese dopo. Mentre l’aereo si abbassava guardavo attraverso l’oblò e vedevo, oltre al mare dell’Avana – carcassa liquida, bestia lucente –, la parata di tutte le questioni che avevo troncato unilateralmente, ossia lavoro, comunicazioni familiari e rapporto con la fidanzata, mollata su due piedi perché si era rifiutata di seguirmi. Ma in poche ore dimenticai tutto e vinse l’eccitazione di essere lì, a ottomila chilometri da casa e in un altro mondo: il mondo dei poster, dell’immaginario di generazioni, dei ribelli grandemente fotogenici.

 

Cenavo a base di TropiCola e cucchiaiate di maionese Los Atrevidos, mentre gli amici vaneggiavano di grandi romanzi

Un anno e sei mesi in tutto. A Cuba ho sempre vissuto in pesos tranne una volta, in cui ho corrotto due impiegatos, due sentinelle della revolución ritte a prua della Gloriosa Bagnarola Statale, i quali, per accorciare la pratica e allungarmi il visto, dimostrarono – e senza vistosi patemi – di gradire più gli euro che l’impotente moneta nazionale. La vicenda aveva fatto sorridere maliziosamente Victor, medico psichiatra che mi affittava una stanza di casa, solidale, fratello e amico di quei giorni avaneri, libero prosatore dei testi di Silvio Rodrìguez, gran decostruttore di miti e flâneur – tante le nottate a ridere a morte e a bere e camminare su e giù. Il suo ricordo riempie quel mio anno e mezzo cubano di luce e familiarità. Strabiliato, mi chiedeva come diavolo potessi vivere lì con tanta apparente disinvoltura, io che avevo la fortuna di venire dal mondo del sapone dalle mille marche, dall’Italia, anzi, dall’Europa, luogo civile, Elisio della stampa libera anche di essere cialtrona e della carta che si può sprecare. Già, come potevo? Cominciai a chiedermelo anch’io. E così, grazie a Victor e a un implacabile bisogno di sguardo leale sulle cose – vizio che mi è rimasto da allora – vidi pian piano sbiadirsi la Cuba che, suggestionato da mitizzazioni mediocri, avevo amato in Italia, e prender corpo la Cuba con cui avrei dovuto fare i conti a Cuba, l’Avana per l’Infante defunto che ero, perfettamente riassunta negli occhi sfatti dei cubani: mentre mi pigiavo con loro in un taxi collettivo, assolato e graveolente, mi sembrava perfino di udirli pensare “ecco l’ennesimo straniero che vuole un’esperienza autentica noleggiando dieci minuti del nostro malessere quotidiano”. Cuba mi ha cambiato la vita e soprattutto la testa. Cuba vissuta ogni giorno per cinquecentocinquanta giorni. Cuba e alcune persone. Il dénouement avvenne subito: ero arrivato per tuffarmi nel paradiso in terra, e fu subito evidente – dalle facce fameliche, dalla miseria culturale, dalla sistematica riduzione a non-persona di ogni persona – che a Cuba non si poteva vivere ma solamente strisciare, vegetare e lentamente svanire: come mi sarei sentito, da quel momento in poi?

 

Nel frattempo, ingordo, acceso, non dormivo mai e imparavo a memoria quella splendida Avana delirante – labirinto costruito per l’ombra, maestosa Saint Honoré andata a male, imponente bordello che aveva inventato il turismo di massa caraibico – perdendomi in quel dedalo giallo, in quell’arabesco fatiscente, camminando pensieri e odorando sentori acquitrinali e infernosi sprigionamenti di marcescenza. Ma come mi sentivo mentre percorrevo quelle strade abbacinanti e deturpate dalle parole d’ordine di regime? Come mi sentivo mentre discendevo per la calle 23 in direzione oceano, tra alveari coloniali con donne affacciate alle grate delle finestre come canarini in gabbia, investito da folate di quinzeañeras che scherzavano tra di loro, bianche, nere e mulatte, in posa per le foto con ombrellini decorati da martin gale di raso scadente, regine di rayon sullo sfondo di saracinesche arrugginite, sidecar sovietici e vessilli di mutande stese? Come mi sentivo quando raccontavo di Ariadna, la scrittrice di cui mi ero innamorato, alla mia amica Annalisa che viveva in quella lontanissima e implausibile Inghilterra, usufruendo dell’unica connessione internet disponibile cioè quella del Nacional, torreggiante hotel tutto mogano e passamanerie retrò (connessione ovviamente di merda, che ci metteva un’ora per farmi leggere due mail e un attimo a strapparmi sensazionali sacramenti, mentre l’addetta mi fissava)? Come mi sono sentito quando passeggiavo con Victor lungo il Malecòn, la Polizia fermava entrambi ma poi si scusava con me e chiedeva i documenti solo a lui, e quando, rientrati a casa, lui si sfogava con sua madre e i cognati e il nipote insieme ai quali viveva in cinquanta afosi metri quadrati, dando in escandescenze al punto che tutti si precipitavano ad abbassar tapparelle in un coro di “cretino, prima o poi ci farei passare dei guai”?

 

Un anno e sei mesi in tutto. A Cuba ho sempre vissuto in pesos tranne  la volta in cui ho corrotto due impiegatos che apprezzavano l’euro

Come mi sono sentito quando, in riunione clandestina con lo sparuto manipolo di amici artisti, lunatici da marciapiede, scrittori senza romanzo espulsi dal consesso comunista ma miei fratelli nella grande patria immateriale della letteratura e disillusi sostenitori dell’unico progetto sostenibile – il Proyecto Varela – cenavo a base di TropiCola e cucchiaiate di maionese Los Atrevidos, e li amavo mentre vaneggiavano dei grandi romanzi epocali che avrebbero scritto quando Cuba se li sarebbe meritati, cioè quando sarebbe stata finalmente libre? Come mi sono sentito quando, tornando a casa alle quattro del mattino dopo uno di questi incontri, mi ha accostato una Lada della polizia a fari spenti, il finestrino si è abbassato in un guaito ed è spuntato fuori il muso di uno che, con voce collosa, mi ha chiesto: “Dieci dollari e ti accompagniamo a casa. Taxi in giro non ce ne sono”, io ho risposto “no, grazie”, allora quello ha spento il motore, è sceso – giovanissimo, ubriaco cotto – mi ha barcollato davanti e ha aggiunto: “Sicuro? Con noi non sei in pericolo. Da solo… io non posso garantire…”? Come mi sono sentito quando constatavo le vite grame dei miei amici e delle loro famiglie, il terrore continuo, la violenza e la miseria nera che affliggevano le loro vite di esiliati in patria, eppure, chiudendo gli occhi, contraddittoriamente e vergognosamente, mi rendevo conto che in quei mesi la voglia di vivere mi stava saltando tutta addosso, con foga famelica, come un demone acrobata?

 

E come mi sentivo quando, pagina dopo pagina, quel libro di strade e amicizie e conversazioni infinite, si rivelava sempre più doloroso? Un libro che più andava avanti, più tornava indietro, e le pagine che mi erano sembrate divertenti lo erano sempre meno, finché a un certo punto tornavo in Italia, a Brescia, a capofitto nella sporta di Omar e nel suo immaginario farmaceutico, perché una notte, Ulyses, un amico, scrittore senza speranza, uno del nostro circolo della maionese, aveva ingoiato due blister interi di Zerinol che gli avevo portato proprio io, me li aveva chiesti, e li aveva buttati giù con due caraffate di rum? L’avevano ricoverato d’urgenza e non ci avevano permesso di andare a trovarlo. Poi sì. Sennonché, arrivati lì, ci avevano detto che si erano sbagliati, niente da fare. Poi un giorno ci ridissero di sì, io ero insonne da giorni, sbranato dal senso di colpa, e lui era là, sguardo vuoto, le mani molli, una lumaca in bocca, letto senza lenzuola, afrore di piscio, che mi diceva: “Adesso mi toccherà lo psichiatra. Suicidarsi, qui, è comportamento antisociale, sospetto, e quando passi dallo psichiatra la tua vita è finita.”

 

Con loro condividevamo la patria immateriale della letteratura ma anche il controllo telefonico da parte della Sicurezza di stato

La storia di Omar, invece, me l’ha raccontata sua madre Lilia Rosa, un pomeriggio: le intemperanze giovanili di suo figlio, il campo di rieducazione a Pinar del Rio, Fidel Castro in persona che si era scomodato ed era andato a trovarla per chiederle di stare attenta, il ragazzo doveva mettere la testa a posto, insomma – le aveva detto – con tutto quel che Omar rappresenta… “Perché, cosa rappresenta?” le avevo chiesto io. E Lilia Rosa cominciò a raccontare davvero solo in quel momento. Finì a sera, quando concluse: “Che Omar  sia figlio di Che Guevara lo sanno in pochi e lo sospettano in tanti. Tu, adesso, lo sai”. Pochi mesi dopo, a cena, Omar mi portò in regalo “Hadzi-Murat” di Tolstoj, e anche se non gli parlai dei racconti di sua madre mi guardava come se sapesse tutto. Quel silenzio con cui ci parlammo fu il momento culminante della nostra amicizia profonda, indicibile. L’epilogo fu “Come puttane in Quaresima”, titolo di romanzo di cui resta solo il titolo, perché il romanzo l’abbiamo cominciato quella sera e non l’abbiamo terminato mai. Negli anni non mi sono mai tolto dalla testa certi suoi versi: “Morte dell’intelletto / e irrefrenabile dolore musicale”, diceva una sua splendida poesia.

 

Quanto agli altri amici, la polizia ne ha arrestati molti, perché condividevamo la patria immateriale della letteratura ma anche il controllo telefonico da parte della Sicurezza di stato. E anche se ci ho provato – tornato in Italia, non ho praticamente fatto altro – non sono mai riuscito ad aiutarli. Ulyses l’ho sentito qualche anno dopo, nel 2008. Io ero ospite al Festival Letteratura di La Paz, lui era fuggito da Cuba e viveva a Santo Domingo. Era davvero lui? Attraverso il telefono la sua voce non era quella che ricordavo. “Non scrivo più, me ne hanno tolto la voglia. Faccio la guardia in un parcheggio. Adesso però ti devo salutare”.

Marco Archetti è nato a Brescia nel 1976. Collabora col Foglio e ha pubblicato nove romanzi con i principali editori italiani (Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori, Chiarelettere). Quest’anno è andato in scena il suo adattamento teatrale de “La storia” di Elsa Morante, per la regia di Fausto Cabra e la produzione dello Stabile di Brescia. A ottobre debutterà al Piccolo teatro di Milano “La parola giusta”, il monologo che ha scritto per Lella Costa, regia di Gabriele Vacis.