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Quella vita tra le tenebre, che costringe a reinventare la propria esistenza

Gaia Manzini

Dare un senso alla cecità: ecco “Il dono oscuro” di John Hull

C’è un padre alla festa di suo figlio. Lo tiene in braccio, aspetta che apra il regalo a distanza ravvicinata, ma quando il bambino lo scarta, quando manda gridolini di piacere e tutti intorno a loro esultano, il padre non ha nessuna reazione. E’ un senso tremendo di lontananza e di nostalgia quello che prova, ma non può fare altro. Quel padre è cieco. Non può fare altro che giocare con i suoi figli facendosi guidare in ogni singola mossa; non può fare altro che godersi l’odore del suo bambino più piccolo mentre si addormenta sul suo petto, avvertire i suoi respiri cambiare suono e andamento; ben sapendo che tra di loro non ci sarà mai uno scambio di sorrisi, mai davvero reciproco, come accade tra persone vedenti. Non può fare altro che escogitare strategie per salutare il figlio più grande davanti a scuola, senza sentirsi abbandonato all’improvviso: i loro continui “ciao” che si affievoliscono come un’eco e accompagnano la separazione. E’ la messa in scena una sparizione graduale, senza traumi. Non può far altro che chiedersi se il fatto di non avere mai visto due dei suoi tre bambini, abbia avuto qualche influenza sui sentimenti che prova per loro.

 

John Hull (1935-2015) è stato professore di Teologia e Scienze religiose a Birmingham. Negli anni Ottanta, a seguito di una patologia degenerativa della retina, ha perso definitivamente la vista. “Il dono oscuro” (Adelphi, nella bella traduzione di Francesco Pacifico) è l’intenso diario che dettò nei tre anni successivi. “Non c’è mai stato, che io sappia, un resoconto altrettanto minuzioso e affascinante (e insieme spaventoso) di come non solo l’occhio esterno, ma anche l’‘occhio interno’ svanisca progressivamente a causa della cecità”, scrive Oliver Sacks nella prefazione. Eppure il libro è cosparso di speranza. A ogni pagina c’è il tentativo di ri-creare la propria esistenza, ripensarla in un senso profondo, per trasformarsi in qualcuno capace di “vedere con tutto il corpo”.

 

Ma per fare questo, ogni certezza perde significato. Ogni cosa cambia funzione.

 

Il vento prende il posto del sole: una bella giornata non è più una giornata luminosa. Lo è una di brezza; la brezza che accende i suoni, il fruscio delle foglie, le cartacce che si sollevano dal marciapiede, i tuoni che mettono un tetto sopra la testa. La pioggia diventa una sinfonia: differenze di timbro, di velocità, tamburellare acuto e cadenzato, attutito sul cemento, forte sul vetro. E’ la restituzione del mondo: “Il mio corpo e la pioggia si mescolano, e diventano un unico universo uditivo-tattile, tridimensionale, dentro il quale e attraverso il quale si genera la mia consapevolezza”. Un oggetto piccolo, fatto di pietra, come un gufo scolpito, un oggetto di per sé insignificante, trattenuto nel palmo di una mano diventa un’esperienza appagante. L’udito è un pennello, sa descrivere piani prospettici sempre più lontani. E il silenzio è un’esperienza interiore, assenza di suono, ci conduce davanti al nulla, davanti al trascendente. I rumori invece sono una bomba: se il rumore è troppo diventa frastornante, il padre non riesce a reagire perché gli stimoli che vengono dall’ambiente arrivano da ogni direzione. Lo spazio infine si trasforma in una sequenza di movimenti. E poi i piccoli cenni, le mezze domande, gli approcci esitanti, tutti i passi preliminari che usiamo con gli altri, tutte le cautele, le danze di avvicinamento d’improvviso non ci sono più. Anche l’Australia, amato paese d’origine, le spiagge dorate, le foreste d’eucalipti, il profumo del bush, lo Zoo di Melbourne non ci sono più: al loro posto i viaggi in macchina, le curve, i sobbalzi che raccontano dove ci si trova e rimettono in moto la memoria del corpo. E c’è il nodo cruciale dell’universo visivo, quello in cui siamo immersi: anche la nostra lingua ne è immersa. “Visto?”, diciamo per chiedere a qualcuno se ha capito. I bambini pensano di diventare invisibili chiudendo gli occhi. Cosa succede a un cieco? Per un non vedente i corpi si smaterializzano, non sono più lì: non c’è più accesso al viso delle persone. Quando i ricordi si affievoliscono, quella persona non ci sarà più nel senso tradizionale del termine. Ma poi la faccia che si perde è innanzitutto la propria. Ebbene, senza il nostro volto, chi siamo?

 

E’ difficile dare un senso alla cecità, eppure John Hull riesce a dire di averci trovato qualcosa di purificante. Riesce a commuoverci. La vita va ricreata da capo, bisogna riorganizzare la propria identità, ancorandosi al cuore nudo della roccia, a nuove certezze. Bisogna rinascere. E lui, nella vita e nelle parole di questo libro, ce l’ha fatta.

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