Uno striptease a Sebastopol, Ucraina (©Nick Hannes/LaPresse)

Il viaggio che mi ha cambiato la vita

In fondo alla Crimea

Corrado Beldì

Attraversiamo l’Eurasia in auto. Direzione: la Repubblica di Kazantip. Sei giorni di musica e vodka e Red Bull con gli occhi e il cuore sul Mar Nero

Per questa estate abbiamo scelto di chiedere ad alcuni scrittori qual è stato il viaggio che ha cambiato loro la vita, il viaggio di cui portano ancora i segni addosso. Fuga, meta sognata, coincidenza, scoperta casuale: il luogo, ma anche il percorso di per sé, i chilometri a piedi, in bicicletta o in auto, il partire per partire, l’avanzare in una terra nuova. Il cercare e trovare (cose che abbiamo immaginato o visto da qualche parte in altra forma, persone che ci aspettiamo trepidanti di incontrare) e lo scoprire. In tanti modi un viaggio può farsi memorabile e degno di essere raccontato. E in modi diversi gli scrittori racconteranno il loro viaggio ai lettori del Foglio.Abbiamo già pubblicato: “Un rave per Lisbona” di Vanni Santoni (il 10 luglio), “Danzare, forse, volare via” di Antonella Lattanzi (il 16 luglio), “Nudo sulla mia Saab” di Aurelio Picca (il 23 luglio), "L'India dei miei sospiri" di Gaia Manzini (il 28 luglio), "Giro del mondo in prima classe" di Giacomo Papi (il 30 luglio), "La Grecia vista dal Babilonia" di Ilaria Macchia (il 4 agosto), "Fuga all’Avana" di Marco Archetti (il 7 agosto), “L’impostore di Reykjavík” di Claudio Giunta (10 agosto).


  

Il mio portinaio non cambia mai. Davvero non sai dove andrai in vacanza? Ogni volta la solita domanda e dire che mi conosce da dieci anni. Ho chiuso l’ufficio solo adesso, domani è Ferragosto e ovviamente non ho idea di dove andare. Sa bene che io detesto programmare l’estate, ad agosto non voglio impegni, né valigie da riempire e nemmeno biciclette da inforcare. Ho solo un’intervista a Brian Wilson, un’ora al telefono non di più, e poi nulla fino a settembre. In realtà ho un gancio con Roberto in Piazza Duomo, magari ci viene un’idea su dove fuggire, a Milano si boccheggia e lui ce la mette tutta, è in piedi sotto il sole, vestito di nero da capo a piedi, sarà la tecnica del tuareg ma a mezzogiorno sul sagrato c’è soltanto lui. Ci vorrebbe un rabarbaro col seltz e tanto ghiaccio ma il Camparino è sbarrato, altro che rissa in galleria, per fortuna ho la camicia a maniche corte, come John Kennedy in vacanza a Cape Cod, altrimenti a Palazzo Reale non ci potrei nemmeno arrivare. Abbiamo deciso di andarci e di fare un gioco. Sarà una mostra a suggerirci dove andare. Non esiste agenzia di viaggi più efficace, basta lasciarsi ispirare e partire, magari verso le biblioteche fotografate da Massimo Listri o i pub più amati da Francis Bacon o sulle tracce di Antoon van Dyck nella vecchia Genova. Siamo molto indecisi, vorremmo più esotismo ma non troviamo il sentiero giusto, finché ci appare di fronte un quadro di Piero Guccione, una vita a dipingere il mare, sempre alla ricerca della perfezione, c’è un transatlantico che salpa dal porto di Messina, è pieno di speranze e infatti ha una falce e martello sul camino. Il nome a poppa è scritto in rosso. Leggo ad alta voce. Basta uno sguardo. L’abbiamo sempre saputo. La nostra vacanza dei sogni. Odessa.

 

Siamo molto indecisi, vorremmo più esotismo ma non troviamo il sentiero giusto, finché ci appare un quadro di Piero Guccione

L’ho data vinta a Roberto ma partire di notte è una vera idiozia. Quando mai si è visto un esodo estivo verso la Crimea? Di certo coi bagagli facciamo presto, quattro magliette e un dizionario, non serve altro, con la mia SLK cabrio possiamo attraversare l’Eurasia, ci ho già fatto 670 mila chilometri, come andare sulla luna e tornare indietro. L’importante è avvolgere bene la sciarpa per non finire come Isadora Duncan e speriamo che regga la trasmissione, sarebbe da cambiare ma se aspetto il meccanico dico addio alle vacanze. Se ci molla torneremo in autostop. Un buon portafortuna ce l’abbiamo, la medaglia d’oro del centenario Lenin, me l’ha portata un amico dalla Russia, laggiù protegge meglio della Madonna e poi a guidare scappottati ci si abbronza. Al primo autolavaggio la facciamo lucidare al massimo, è una freccia d’argento come quella di Rudolf Caracciola, il vero mito dell’automobilismo, non si può dire ma era ben più veloce di Tazio Nuvolari e infatti i gran premi li vinceva tutti lui e al traguardo le ragazze lo coprivano di baci. Speriamo che ci accada la stessa cosa, l’importante è spiaccicare almeno due parole, le cerchiamo nelle canzoni di Aleksandr Rozenbaum, è il Bob Dylan della guerra in Afghanistan, il menestrello russo contro l’estremismo talebano. Con un bicchiere di vodka, viaggiamo silenziosi oltre il confine e portiamo i nostri ragazzi a casa.

 

Una ragazza beve una birra in piazza Svobody Kharkiv (©Nick Hannes/LaPresse)


     

Un buon portafortuna ce l’abbiamo, la medaglia d’oro del centenario Lenin, me l’ha portata un amico dalla Russia

Cantiamo a squarciagola come due soldati dell’Armata Rossa, dovrei perfezionare l’accento ma in fondo me la cavo, ho fatto il corso di russo coi cd, perfetto per le code in tangenziale, tanto per essere pronto in caso di trasferimento oltre cortina. Il sogno di dirigere una fabbrica di argilla espansa in Russia non mi ha ancora abbandonato, magari in un posto desolato al di là degli Urali, un grande Stalin disegnato sui mattoni della ciminiera e la settima di Šostakovič nei reparti, tanto per dare il ritmo alla produzione e poi una dacia tra i boschi di betulle e tanti libri di Nabokov da leggere e farfalle da rincorrere e le domeniche al fiume con le famiglie degli operai e piatti di salmone e patate lesse e bicchieri di vodka come se non ci fosse un domani. A forza di pensarci mi è venuta una fame boia, tre salami nel baule potevamo anche metterli e una cassetta di frutta fresca e magari due finocchi, guidiamo da molte ore e sempre in apnea, l’Austria è volata ma l’Ungheria non finisce mai, sulla cartina sembrava così piccola, mi farei un sonnellino ma Roberto mi assilla che non possiamo perdere un minuto, al confine con l’Ucraina potrebbe esserci una gran coda. Invece alla frontiera non c’è nessuno, piuttosto una marea di gente vuole venire in Europa, infatti le guardie ci squadrano con sospetto e si avvicinano con i mitra spianati. Stringo forte il mio Lenin ma non basta. Fanno segno di scendere e iniziano a smontare l’auto pezzo a pezzo, povera la mia SLK, le ruote, i sedili, la capote e persino il volante, vengono fuori pezzi mai visti, un cane annusa ogni dettaglio ma alla fine non trova nulla, mica siamo fessi, quando rimontano il parafango anteriore è tutto come prima, tranne un bullone che il poliziotto mi allunga insieme ai passaporti. Maybe this of your car, maybe not. I don’t know. Good trip.

Ripartiamo dopo quattro ore sfrecciando in un paesaggio di laghi e colline che sembra la Svizzera e invece le strade sono peggio di quelle siciliane, il navigatore ci spinge sulle montagne, dev’essere una specie di scorciatoia con tante buche da non saper dove mettere le ruote. Sono ben concentrato sulla guida ma mi squilla il cellulare. Chi cavolo rompe a quest’ora. Insiste. Un numero americano. Accosto. It’s Brian Wilson. Dio mio, l’uomo da cento milioni di dischi. Mi ero del tutto dimenticato. Devo fargli un’intervista per Rolling Stone. Metto in vivavoce e prendo appunti su un tovagliolo. Ha una voce da oltretomba. La California, il surf, i Beach Boys, l’LSD, quanto ne ha preso, le solite storie, risponde a monosillabi, più che altro verrà fuori un trafiletto. Che cosa? Il surf non mi è mai piaciuto. Ha detto proprio così. Roba da non credere Cade la linea. Meglio se spengo il cellulare.

  

(2008, © Nick Hannes, LaPresse)


  

Siamo così eccitati che sbagliamo strada o meglio arriviamo a Kazantip ma è deserta. L’avamposto russo

Partiamo in quarta e ci ritroviamo in un paesaggio arcaico, strade sterrate e nemmeno un palo elettrico, sembra di essere nel Medioevo e in effetti anche il navigatore è impazzito, non si vede anima viva fin quando appare una babushka su un carro trainato da un somaro, è un ammasso di rughe, la superiamo, ci guarda con l’occhio di vetro, punta il dito e grida un anatema incomprensibile. Non saprei come reagire. Faccio un gestaccio e sgommiamo via. Pochi secondi e sento una botta. Maledizione. Abbiamo forato. La gomma è a terra e attorno ci sono solo campi di girasole, come in quel libro di Safran Foer ma qui nessuna cosa è illuminata, anche se forse siamo proprio dalle parti di Trochenbrod e infatti non c’è più nessuna traccia del villaggio, niente di niente, siamo dispersi. Aveva ragione Brian Wilson. Meglio stare tutto il giorno sul divano. La babushka ci supera col suo carretto fantasma. Ridacchia. Apre la bocca. Ha un dente solo. Anche noi abbiamo un solo ruotino di scorta, se foriamo un’altra volta è finita, c’è frumento a perdita d’occhio, siamo in mezzo al granaio d’Europa e nessun indizio su come trovare un gommista. Andiamo a trenta all’ora, guardiamo il sole e puntiamo verso est. Già temiamo una notte in macchina, sarà figo viaggiare in cabrio ma questi sedili spaccano la schiena. Siamo pronti al peggio quando ci appare una visione che Roberto definisce subito arcadia, un laghetto in mezzo ai campi, i cannicci tutto attorno e un vecchio pontile al tramonto, sono bionde, non saprei quanti anni hanno, sono in quattro, un numero perfetto, fanno un girotondo e si spogliano delle vesti bianche in controluce, si tuffano una dopo l’altra, spariscono e riemergono, ridono, giocano, sono naiadi d’acqua dolce. Stai vedendo la stessa cosa? Siamo senza parole. Se sapessimo parlare la loro lingua ultraterrena ci potremmo denudare, tuffare e restare qui per sempre a vivere di amore e teosofia e invece siamo timidi, per non dire che siamo due sfigati e poi forse era solo un’allucinazione e d’altra parte abbiamo una gomma da cambiare e poi non possiamo mica sparire nel nulla. Guidiamo nel buio e intanto pensiamo che forse era tutto vero e che sarebbe stato meglio sparire in quel miraggio ma poi d’un tratto vediamo una luce, la seguiamo e siamo a Ternopil e troviamo il gommista. Di fronte c’è un albergo che sa di aneto e panna acida, anche quello alla reception che si offre subito di stirarmi la camicia, tira fuori un vecchio ferro e comincia a svaporare sul bancone. Arriva un suono di fisarmonica, usciamo e troviamo un lago e un cammino e in fondo c’è un kiosk dove rimediamo una birra alla spina e conosciamo Rossano, muratore di Prato, camicia verde e catena d’oro, viene qui in spedizione punitiva una volta l’anno perché la Toscana l’è bella ma qui mi sento un maschio vero. Insiste per portarci in un locale di quelli giusti ma abbiamo attraversato mezza Europa e crolliamo dalla fatica.

 

Ci svegliano alle sei del mattino, sono arrivate le gomme, due Kordiant di fabbricazione russa. Il gommista urla e intanto digrigna i denti. Rablì, rablì! Solo contanti, ho capito, l’aderenza è buona e soprattutto sono a prova di babushka. Siamo a Odessa in un baleno. Al primo cartello, Roberto entra in una specie di trance cinefila e allora ci precipitiamo alla scalinata della Potëmkin, lo spirito di Ejzenštejn aleggia nell’aria ma senza la carrozzina non è certo la stessa cosa. Dove i cosacchi sparavano sulla folla, ora vendono scarpe col tacco, il sole scintilla e c’è una bella vista sul porto. Piero Guccione starebbe tutto il giorno qui a dipingere dall’alto il Mar Nero, è largo e placido e per nulla scuro, noi invece ci accontentiamo di un selfie e ci lasciamo distrarre dal resto, ci sono fotografi e limousine, telecamere e bouquet, sembra il set di un telefilm sulla mafia ucraina e invece è solo giorno di matrimoni. Dieci spose in pochi metri, da queste parti si sposano ancora e sono tutte insipide e bellissime e sorridono al futuro tenendo per mano mariti con giacche improbabili. Chissà quante sognano l’Italia e una cabrio in garage e una cucina coi piani a induzione, se non fossimo da mogli e buoi dei paesi tuoi ci sarebbe da prenderne due e buttarsi subito in chiesa e ripartire sposati. Invece finiamo a storione e spumante moldavo in un ristorante di fronte al museo e brindiamo coi vicini di tavolo all’amicizia tra i popoli e quanto è bella questa Odessa e ci offrono un giro di vodka e abbiamo fatto proprio bene a venirci e dobbiamo restarci ameno un mese ma poi leggiamo sul giornale che ieri, qui davanti, hanno rubato un Caravaggio e ci sono due sgherri che ci fissano dietro un paio di occhiali scuri fanno molto Kgb. Sospettano di noi? Roberto mi sussurra qualcosa. Meglio se ce ne andiamo a Kazantip. Non ho capito dove vuole andare, ma certo non ho voglia di farmi le vacanze in cella, lasciamo cento rubli sul tavolo, lui va in bagno, io mi fumo una sigaretta in veranda, contiamo fino a trenta e iniziamo a correre, la freccia d’argento ci aspetta, sgommiamo in direzione Crimea e dopo un’ora la bellissima Odessa è soltanto un ricordo.

  

La mia fine del mondo è Anna Vasilevna, ha una macchina fotografica al collo, una Zenit dei tempi sovietici

Dove hai detto che andiamo? Il più grande rave party di tutte le Russie, tre settimane di techno, vodka e future spose, il massimo della perdizione. Già mi immagino la faccia del portinaio. E’ proprio come dici? Siamo così eccitati che sbagliamo strada o meglio arriviamo a Kazantip ma è deserta, c’è solo una locanda polverosa sul mare di Azov, quattro vecchi e una ragazza davanti a un juke-box. Chiediamo informazioni. Tirano fuori una mappa, il rave di Kazantip l’hanno spostato a Popovka, dall’altro lato della Crimea, come dire che la Biennale di Venezia è stata trasferita verso Genova. Altre strade e altri paesaggi e qualche birra finché vediamo in lontananza le luci della fortezza, ai varchi controllano i documenti e ci consegnano il nuovo passaporto della Repubblica di Kazantip, tre chilometri di costa chiusi da una barriera invalicabile, c’è la security armata e non entri senza il pass. Chiaramente è un avamposto russo, il parcheggio è una distesa di suv targati Mosca, con la freccia d’argento facciamo un figurone ma l’albergo è una vera topaia, un compound sovietico che cade a pezzi, ci sono i buchi nel pavimento e la moquette dei tempi di Krusciov. Il resto è una spiaggia di cupole geodetiche e palme portate da chissà dove, banchi cocktail e campi da beach volley e migliaia di magliette gialle che colorano un fiume di ragazze seminude e soprattutto non c’è nemmeno un europeo, una vera goduria, manco Rossano è mai arrivato fin qui. Apriamo subito un profilo VKontakte, senza il facebook russo qui non sei nessuno, il tempo di togliere i bermuda e mi butto in mare, riemergo e sento un ritmo che sale, si dirigono tutti sul pontile, è l’ora del tramonto e c’è molta eccitazione nell’aria perché a Kazantip, quando scende il sole, inizia un altro rave. Venti piste, raggi laser, sei giorni di musica e bicchieri di vodka e Red Bull, una bomba di alcol e caffeina per non fermarsi mai, si balla fino all’alba, qualche ora di sonno e si riparte col sorriso e non può essere altrimenti, perché in fondo a queste notti siamo tutti alla ricerca di un miraggio.

  

La mia fine del mondo è Anna Vasilevna, ha una macchina fotografica al collo, una Zenit dei tempi sovietici, è un cespuglio di capelli castani, mi guarda e mi fotografa e chissà se davvero ha messo la pellicola, mi gira intorno e scatta in continuazione e ci muoviamo in circolo tra la folla che pensa soltanto a ballare, l’importante è non perderci di vista e non accade, c’è qualcosa di magnetico tra noi, lei sorride, io sorrido, al primo lampione ci sfioriamo, ha una pelle morbida e lentiggini come gocce d’olio, non serve parlare la stessa lingua, inizia a disegnare sulla sabbia, è la mia freccia d’argento o qualcosa di simile, lei invece è arrivata in treno, ha fatto tremila chilometri proprio come noi ma ci ha messo novanta ore, aggiunge qualche formula, il cirillico è una barriera ma i numeri son numeri, è ingegnere aerospaziale, progetta aerei e infatti ha un’aerodinamica perfetta e pure l’ombelico e un paio di pantaloncini bianchi che basterebbe un soffio per farli volare e allora scopro che viene da Togliattigrad e mi passano davanti agli occhi mille fotogrammi del Dopoguerra, da Vittorio Valletta alla prima Žiguli, dalle lotte dei lavoratori alla pipa di Luciano Lama, da quel dribbling di Gigi Meroni contro la Juventus alla marcia dei quarantamila, la riscossa liberale, è un attimo ma quel che accade tra noi è un sogno da capitano d’impresa, quando mi sveglio sulla battigia la musica è lontana e lei dorme sul fianco illuminata dal primo sole, il Mar Nero si agita appena, immagino le cime del Caucaso e le steppe asiatiche oltre l’orizzonte e prima ancora di partire ho già nostalgia di Kazantip e di queste onde che piacerebbero a Piero Guccione, perché la vita, come il mare, non smette mai di stupire e in questo viaggio al termine della notte ho trovato un paesaggio che di certo mi sarà impossibile dimenticare.

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