Colson Whitehead, I ragazzi della Nickel, Mondadori

Cent'anni di solitudine e inferno nell'America nera degli anni Sessanta

Marco Archetti

“I ragazzi della nickel”, il nuovo romanzo di Colson Whitehead, prende spunto da un reportage a puntate e ci riporta nella quotidianità della vita senza prospettive di Tallahassee

"Non basta sopravvivere, bisogna vivere”. Questa è la voce di Elwood Curtis, tuttavia in questa semplice frase può essere riassunta – dai titoli di testa ai titoli di coda – l’intera vicenda umana di Elwood Curtis, un ragazzino cresciuto dalla nonna nella Florida degli anni Sessanta, che il giorno di Natale del 1962 riceve il regalo più bello della sua vita: “Martin Luther King at Zion Hill”. Un disco angolare, con incisi i discorsi più importanti del Reverendo. Un disco volante che da quel giorno gira sul piatto instancabilmente, quasi a voler prendere la rincorsa per decollare, e che alla fine decolla, nella testa di Elwood, nella sua vita e in un’America che, a corto di alibi, comincia a fare i conti con se stessa. E mentre l’America strapiomba nella voragine tragico-razziale tra America reale e America percepita, quel giorno di Natale del 1962 portò a Elwood anche un maglione rosso: cosa farsene se nel frattempo tutto ciò che ti serve sgorga dal piatto di un giradischi? Cosa farsene se, crepitio dopo crepitio, le parole del Reverendo e i suoi discorsi di Detroit e Montgomery ti scavano nell’anima una cassa di risonanza le cui vibrazioni non ti lasceranno in pace per il resto dei tuoi giorni? Cosa fare se, a partire da quel momento, vivere diventa rifiutarsi di sopravvivere e di sottostare alle umiliazioni?

 

I giorni di Elwood Curtis, giovane appassionato di letteratura inglese che sogna il college, ce li racconta Colson Whitehead nel suo nuovo romanzo, I ragazzi della Nickel (Mondadori, 213 pp., €18,50 euro). La storia è stata ispirata da un’inchiesta: nel 2014 il Tampa Bay Times raccontò in un reportage a puntate tutti gli atti ignobili commessi nella Dozier School for Boys di Marianna – segregazioni, torture e omicidi occultati per anni in nome della “rieducazione”. Il romanzo ci riporta esattamente lì, e nella quotidianità di una nonna e di suo nipote, della vita senza prospettive a Tallahassee, e del loro immaginario fatto di un televisore desiderato e mai posseduto, del Davis Drive-In in cui Elwood era stato solo due volte, e dell’ossessione per la pubblicità del parco di divertimenti Fun Town di Atlanta che il giovane vedeva quando andava a trovare i cugini in Georgia e di cui aveva sentito parlare dal Reverendo nel disco, perché era il parco vietato anche a sua figlia. “Anche se non puoi entrare a Fun Town, ragazza mia, ricordati che non vali meno di quelli che ci possono entrare”. Entrare alla Nickel, per Elwood, è molto più semplice: basta un autostop, proprio il primo giorno di college. Basta l’arrivo dell’auto sbagliata. Al primo posto di blocco l’auto risulta rubata, ed ecco che il tuo futuro è già in pezzi a rotolare con te nel mondo infero della “correzione”. Là, niente conta più. Nemmeno il fatto che sei un bravo ragazzo, portato per lo studio e vittima di un’atroce beffa del caso. E anche se stavi facendo di tutto per tenerti fuori dai guai, è scritto: per gli Elwood Curtis (così come per tutti i neri che vivevano in quell’America in cui il Ku Klux Klan terrorizzava, linciava e assassinava in nome della superiorità della razza bianca) non esiste una seconda opportunità sulla terra. Gli anni di solitudine saranno cento, moltiplicati per tutti gli anni che vivrai all’inferno. Elwood scoprirà presto la verità: dalla Nickel si può solo fuggire – il punto è riuscirci.

 

Dopo “La ferrovia sotterranea”, Whitehead torna con un romanzo meno ambizioso nella struttura, ma urgente nella sostanza, e assai solido. Tripartito e ricco di sorprese di montaggio, ha forse l’unico difetto di tradire, qua e là, l’ispirazione da cui prende le mosse, non riuscendo sempre a trasformare il dovere di denuncia nel diritto (che ogni lettore deve poter reclamare) a una narrazione in senso proprio: alcune pagine resocontano e non raccontano, e lo sfondo sociale è spesso descritto più che narrato, come se allo scrittore premesse arrivare dove di volta in volta voglia arrivare, anziché fare tutto ciò che il mestiere gli consente affinché il lettore ci arrivi da solo, avvinto dalla scrittura e immerso nei personaggi. Ma la storia trafigge, nella certezza – citando Elwood – “che tutto questo non è affatto lontano. Non potrà mai esserlo”.

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