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Lo sconosciuto di Volpedo
Un film e nuove mostre per scoprire Giuseppe Pellizza, genio inconsueto per coerenza e ispirazione, la cui arte è racchiusa e transfigurata nelle luci e nelle persone. Oltre il quadro più celebre del Novecento italiano
Le prime immagini sono le spighe ondeggianti ancora verdi, la campagna quieta e il torrente Curone, le colline dolci di frutteti e vigne. La prime parole, una voce profonda e dolente, invece raccontano già una fine: l’alba di un giorno d’estate in cui entrò nel suo studio a Volpedo e “s’appiccò con un fil di ferro a una scala a pioli”, come scrisse Ugo Ojetti. In questo chiaroscuro tra la luce della campagna e il mistero appartato di uno studio di pittore c’è tutto lo spazio per la scoperta di un uomo e di un artista singolare come Giuseppe Pellizza. Pellizza da Volpedo. Che crediamo di conoscere bene, di conoscere tutti. In realtà conosciamo soltanto un’unica opera, la sua grande tela, il Quarto Stato. Nient’altro, almeno il grande pubblico. E anche parzialmente, nemmeno tutti sanno che lo spiazzo di campagna su cui uomini e donne avanzano è la piazza di Volpedo e che quei personaggi, nome e cognomi, sono persone di lì, ben conosciuti. Anzi quella donna in prima fila è proprio Teresa, sua moglie. Quell’uomo che si tolse la vita nel suo paese natale, a trentanove anni, pittore affermato e conosciuto, era molto di più e molto diverso dall’unica etichetta rimasta poi appiccicata sotto il suo celebre quadro divenuto icona e bandiera. Era un raffinato pittore, di coerenza estrema, uno sperimentatore della luce e un ricercatore dell’animo umano, un maestro riconosciuto del divisionismo. Uno di quegli artisti che con Fattori e Segantini, fossero vissuti in un’Italia più fatta e non in fieri, avrebbero goduto di ben altro successo europeo. Un pittore inconsueto per la coerenza della sua ispirazione, tutta racchiusa e trasfigurata lì nelle luci, nelle persone, nella natura di quel triangolo di terra tra l’Oltrepò, il basso Monferrato e l’Appennino ancora oggi rimasto uguale, appartato e un po’ dimesso.
Già, Volpedo. Giuseppe Pellizza nasce in questo piccolo comune agricolo dell’Alessandrino nel 1868, l’Italia fatta da poco e i contadini quelli di sempre, che ancora non si erano messi in marcia. I genitori piccoli possidenti, ma non di corte vedute, se a quindici anni lo mandano a Milano a frequentare l’Accademia di Brera. A studiare pittura. Poi ci saranno Roma e soprattutto Firenze, con Giovanni Fattori, e Bergamo. Un lungo apprendistato, il metodo puntiglioso di un giovane artista senza bizze bohémienne, che sa programmare la propria ambizione. Tornerà a casa, Volpedo è la sua Heimat, e presto inizierà a firmarsi così: Pellizza da Volpedo. Come da Vinci, da Cortona o il Correggio. Anzi di più, non un luogo di provenienza, ma il luogo dove ha radici la sua essenza di uomo e d’artista.
Le immagini e le parole da cui siamo partiti sono quelle di un docufilm che è stato presentato giovedì scorso alla Festa del cinema di Roma. Si intitola, appunto, Pellizza pittore da Volpedo e lo firma il regista Francesco Fei – uno specialista di questi racconti, suo il documentario Dentro Caravaggio, suo il ritratto di un altro pittore vicino per stile e sensibilità a Pellizza: Segantini, ritorno alla natura. C’è la “coscienza narrante” di Fabrizio Bentivoglio, che fa da alter ego discreto, legge i diari e le lettere dell’artista, cammina per le sue strade. Ci sono gli accompagnamenti essenziali di critici e di direttori dei musei, tra cui il contributo di Aurora Scotti, massima studiosa del divisionismo e dell’arte di Pellizza. E’ una bella occasione, il film, in mezzo a tante altre circostanze non casuali destinate a riaccendere l’interesse per un eccellente artista e un uomo di grande sensibilità invero ancora tutto da scoprire. A produrre Pellizza pittore da Volpedo è l’associazione novarese METS Percorsi d’Arte con Apnea Film, mentre Nexo Studios si è incaricata della distribuzione in sala a gennaio e il contributo di Sky Arte che ne garantirà l’approdo televisivo. L’altro passaggio di questo viaggio, sempre promosso da METS Percorsi d’Arte, è la grande mostra, ottanta opere, dal titolo “Paesaggi. Realtà Impressione Simbolo. Da Migliara a Pellizza da Volpedo” curata da Elisabetta Chiodini al Castello di Novara che inaugura il 1 novembre (fino al 6 aprile 2025); mentre nell’autunno del 2025 sarà la volta di una grande antologica di Pellizza da Volpedo alla Galleria d’arte moderna di Milano, la “casa” del Quarto Stato.
C’è anche, più casuale, un piccolo gioco d’incastri milanesi destinato a rinnovare l’attenzione su quella che viene giustamente definita l’opera pittorica più engagé del Novecento italiano. Il Quarto Stato è tornato da pochi anni, 2022, alla Gam di Milano, la sua collocazione d’elezione da quando una sottoscrizione pubblica permise di acquistare la tela nel 1921, anche se la prima esposizione fu al Castello sforzesco, dopo essere stato nell’ultimo decennio al Museo del Novecento. La Gam è di certo il luogo migliore per quello che, al di là di tutti i significati politici e le incrostazioni e rivisitazioni pop di cui ha goduto in oltre un secolo, dai manifesti del Partito socialista al Novecento di Bertolucci fino a Dylan Dog, è innanzitutto un capolavoro del divisionismo. Di fronte ai Giardini di via Palestro sarà in buona compagnia con la migliore pittura italiana a cavallo dei due secoli. Nel frattempo sta per tornare finalmente visibile, sempre a Milano, il suo l’antefatto gemello, La Fiumana. La grande tela dall’impianto pressoché identico che Pellizza aveva iniziato a dipingere nel 1895 per interrompersi nel 1898, per il trauma dei morti di Bava Beccaris che lo aveva particolarmente turbato. La Fiumana ha trovato casa a Palazzo Citterio, il nuovo museo per il Novecento della Pinacoteca di Brera di cui diventerà un brand. Ma il giro di valzer di Milano attorno alle sue icone dell’arte politica del Secolo breve ha un passo finale, ancora al Museo del Novecento.
Che ha perso il Quarto Stato ma dove sono da poco approdati I funerali dell’anarchico Pinelli, la pala d’altare laica di Enrico Baj – 13 pannelli di 3 metri per 12 e 18 figure ritagliate nel legno e unite in un collage – finalmente esposta al pubblico in modo permanente dopo aver giaciuto nascosta per decenni, ostaggio di una storia tragica. L’opera era stata commissionata dal Comune (sindaco il socialista Aldo Aniasi) per la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, ma non fu mai esposta dopo l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Ora tre opere che hanno segnato politicamente l’arte del Novecento italiano occuperanno le giuste caselle della scacchiera milanese, in attesa che anche la storia possa un giorno fare altrettanto. In questo gioco dei rimandi, ci sarebbe anche da annotare che alla Festa del cinema di Roma è stato presentato anche il film su Berlinguer, La grande ambizione, e senza nemmeno dover forzare storia e biografie si può immaginare che il segretario del Pci e il pittore amato dal Partito socialista simboleggiano a loro volta storie diverse della sinistra italiana, la via comunista e quella di un socialismo naturaliter riformista. La storia del Quarto Stato è anche storia di un modo intendere la società e la politica. In quel microcosmo che per lui era un concentrato morale del mondo e della società, a Volpedo Pellizza aveva iniziato a coltivare l’attenzione alle persone, ai lavori, alla giustizia sociale. Il primo abbozzo, “girato” sempre nella stessa piazza, è Gli ambasciatori della fame (1892).
Nei suoi diari scrive: “Vorrei esporre il mio sentire… la forza vera sta nei lavoratori intelligenti e buoni”. E ancora, è la voce di Fabrizio Bentivoglio, “la mia aspirazione all’equità mi ha fatto ideare una massa umana di lavoratori intelligenti e uniti… che s’avanzano come una fiumana che travolge ogni ostacolo”. Sta parlando non del capolavoro futuro, ma della Fiumana, il “cartone preparatorio” del Quarto Stato che presenterà per la prima volta alla Quadriennale di Torino nel 1902. Si aspettava una grande accoglienza, per la qualità dell’opera e per il momento storico, ma il dipinto fu criticato dai conservatori che vi lessero un inno rivoluzionario, e fu criticato dalle forze progressiste perché troppo timido per poter accendere gli animi delle masse. Non c’era spazio, nemmeno allora, per il riformismo. La delusione fu grande, “non dipingerò più grandi tele” scrive Pellizza poco dopo, ed è anche una scelta artistica.
Ma attorno e insieme a tutto questo c’è un altro artista, magnifico, rimasto però quasi sconosciuto al pubblico. Il film di Francesco Fei, la mostra di Novara – ma c’è anche la Galleria d’arte moderna di Torino, e la collezione del divisionismo della Pinacoteca della Cassa di Risparmio di Tortona – e l’interesse milanese sono una scoperta che cambia molte cose. “Il pittore da Volpedo” è innanzitutto l’artista di un luogo e di un sentimento del tempo, della natura, del vivere famigliare. Volpedo è ancora una bella campagna tra la piana e la collina, con i frutteti e la migliore qualità di pesche che dal paese prendono il nome, un tempo che s’è fermato non ancora divorato dalla mania dei piccoli borghi. Le immagini del film di Fei lo mostrano bene, tra passato e presente e altrettanto farà la mostra di Novara, dedicata a una pittura del paesaggio poco nota ma che ha saputo raccontare l’Ottocento prima della rivoluzione industriale e l’evoluzione sociale lenta di quei luoghi che oggi chiameremmo “aree interne”. Da quella terra e da quel sentimento del mondo Pellizza non s’è mai staccato, “non frequentava gli artisti e le feste”, il che lo ha certo penalizzato.
Ma la sua attenzione al sociale, al lavoro, la sua sensibilità umanitaria, sono tutt’uno con quella ricerca costante della luce, dei paesaggi. Attraverso una bravura tecnica indiscussa, l’arte concepita come anelito alla bellezza, come trasfigurazione superiore della vita. Così gli ultimi anni, abbandonati con un po’ di delusione i grandi quadri di impegno sociale, sono quelli in cui Pellizza torna ai suoi luoghi. Non ha mai avuto timore di mostrare anche la vena mistica chiamata dalla bellezza dei luoghi, né il rapporto con la religione che fa parte della storia di quei luoghi. Il prete che dà i sacramenti al contadino morente in un povero fienile (che è il fienile della stessa casa di Pellizza, e la suggestione narrativa gli era venuta proprio dalla povertà di quella vita contadina), oppure le ragazze “biancovestite” che in La processione camminano in una luce che sa già di simbolismo. Si è ormai affermato come artista, ha trent’anni e ha mercato, ma non si sposta dalla casa e dalla famiglia.
Un eccentrico, in senso letterale, volutamente estraneo rispetto alla città e al mondo degli artisti, ma non certo un provinciale. In questo assai simile all’altro e più scontroso maestro divisionista, Segantini, che negli stessi anni dipinge e trasporta a livello di simboli universali il suo piccolo mondo brianzolo e quello alpino dei Grigioni. “Io che vivo segregato dagli artisti”, scrive a Segantini in una rara lettera, “sento il bisogno di intrattenermi un attimo con quelli che stimo”. All’adorata moglie Teresa sarà lui stesso a insegnare a leggere e scrivere. Un Tolstoj delle colline piemontesi, sicuro della qualità morale del suo mondo di umili. Dalla grande delusione del Quarto Stato, che il Comune di Torino non volle acquistare, nascono le opere che più sorprendono della sua personalità sconosciuta. Il prato fiorito (1903) e le Nubi di sera sul Curone (1904). E lo strepitoso tondo di L’amore nella vita (1903) della Gam di Torino, che ruota attorno a una macchia rossa come un cuore. E una danza simbolista è Il Girotondo, concluso nel 1906, l’anno prima del sucidio. Una morte che non ha nulla di nichilistico o superomistico, ma è il risultato di tutti i dolori che avevano affollato la sua tavolozza: la morte del padre e poi di un figlio neonato e infine della amatissima moglie. Il crollo della sua Heimat. Anche i colori e gli umori della sua terra non erano più gli stessi, sono rimasti nella luce divisa delle sue tele.