Foto di Masiar Pasquali, Piccolo Teatro Grassi

Ridare memoria al passato con "la parola giusta"

Stefania Vitulli

Piazza Fontana, Piazza della Loggia. Le voci umane, troppo umane di allora nella voce di Lella Costa. Al Piccolo Teatro Grassi di Milano

“La parola giusta” di Marco Archetti, Gabriele Vacis e Lella Costa. Con Lella Costa. Piccolo Teatro Grassi fino al 6 ottobre


Milano. “Trovare la parola giusta, che sia nel pieno delle forze/ che sia tranquilla/ non sia isterica/ non abbia la febbre/ non sia in depressione”: la citazione poetica è dal “Taccuino d’appunti” di Kapuscinski. E’ la citazione che è servita a Marco Archetti, Gabriele Vacis e Lella Costa per dare il titolo allo spettacolo in scena al Piccolo Teatro Grassi fino al 6 ottobre: “La parola giusta”, appunto. Oggi Kapuscinski avrebbe 87 anni ed è importante dirlo, per parlare di uno spettacolo dove avere l’età che si ha, esserci stati in un preciso periodo storico e continuare ad esercitare la presenza come consapevolezza è il fuoco su cui si convoglia l’attenzione dello spettatore.

 

Vero: lo spettacolo è originato dalla narrativa di Archetti sulle stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia – ultimo romanzo “Una specie di vento” (Chiarelettere), in cui 8 personaggi che rappresentano le vittime della strage più un sopravvissuto rivendicano l’appartenenza ai “presenti” nella storia del paese di quegli anni attraverso il racconto delle loro vite rubate. Vero: le “voci” della “Spoon River” di Archetti sono state travasate in un monologo adattato in maniera sartoriale alle modalità gestuali e vocali di Lella Costa, che diventa qui una donna che nel 1969 aveva 17 anni e non muore e nemmeno muoiono persone, ma perde lo stesso un treno esistenziale, perché la bomba alla Banca dell’Agricoltura stravolge il corso del suo destino mandando in coma il giovanissimo impiegato dalle cravatte orrende di cui si era innamorata perdutamente e con cui faceva attivismo politico. Vero: in quasi novanta minuti di scena non accade praticamente nulla se non una rievocazione di quei giorni, in cui Milano gettava la nuvola anarchica dei suoi processi di rivolta su su nel cielo fino – immaginano gli autori – a raggiungere Armstrong e Aldrin mentre posano il moonboot sul suolo e, dopo essersi guardati attorno, fanno pipì in faccia a quella pallina bluastra che è il nostro pianeta visto da lassù. Il nulla che non accade è punteggiato a tratti dall’esplosione di piazza Fontana prima e di piazza della Loggia poi, quella specie di vento che provoca morti e voragini dove prima c’era la gente.

 

“Non è uno spettacolo predicozzo, non ci affacciamo a nessun balcone sentenziando alcunché potrebbe essere la storia di qualunque donna abbia l’età di Lella e non solo”, specifica Archetti. “E’ importante raccontarsi ancora queste storie perché riguardano collettivamente le persone e questi due fatti rischiavano di affondare in oblio e dimenticanza. La parola invece deve avere un valore ‘ricreativo’: non solo nel senso di divertire, ma di reinventare e riproporre. ‘La parola giusta’ non è un atto di manutenzione della memoria, né un’espressione di atteggiamento sacramentale verso il passato, ma un modo per rendere viva, attraverso il teatro, un’attualità che dia senso al futuro. Vacis e Lella c’erano, a differenza mia, e sanno bene che se oggi gli adolescenti dicono che la bomba in piazza Fontana l’hanno messa le Br – che nel 1969 non esistevano – la colpa è nostra”.

 

Vero, dunque: se vi aspettate rivendicazioni, radicalizzazioni, prese di posizione, non è lo spettacolo “giusto”. La protagonista parla d’amore inteso come prontezza d’azione e dono di sé, finché ce n’è: “E’ ora non è dopo/ se non è dopo sarà ora,/ se non è ora dovrà pur succedere./ Essere pronti è tutto”, diceva Amleto. Antonio, l’amore perduto, finisce in coma per colpa della bomba e una ragazzina di diciassette anni, che stava per portargli in dono un ellepì dei Led Zeppelin perché a Natale lui sarebbe tornato a casa nel Cilento, decide di salvarlo e riportarlo alla vita, con una dedizione che è nient’altro che quella razza di prontezza che ci rende umani. Sfilano intanto, evocati dalla narrazione, il processo di Catanzaro, Valpreda ballerino, Pino Pinelli e Calabresi, Freda e Ventura impuniti e la Milano degli anni Settanta, tra il ristorante Il Dollaro, l’ex Hotel Commercio occupato e i primi consultori che diffondevano il verbo rivoluzionario della contraccezione.

 

Tutte cose vere, che porterebbero a credere che manchi dunque un messaggio politico, in questo spettacolo, o quantomeno un “urlo” che sollevi dalle poltrone le nuove generazioni, invece di coccolare quelle vecchie in una operazione nostalgia che ci fa credere che le belle ideologie esistessero solo mezzo secolo fa. La missione qui, però, è proprio in ciò che di solito trascuriamo: la scelta di come dirle, le cose, e, trovata la parola giusta, la forza di tenersela stretta, fino alla fine dei propri giorni. Che si tratti di “oblio”, “memoria” o “strappo”: una parola talismano, la propria, che permetta di “sollevarsi almeno un millimetro su tutto questo”.