“Amore, com'è ferito / il secolo”. Una poesia di Giorgio Caproni al giorno farebbe bene a chiunque (foto LaPresse)

Come sempre, il problema è nelle cattive letture

Marco Archetti

Una poesia di Giorgio Caproni al giorno farebbe bene a chiunque, perché ci ricorda che non possiamo non esserci, per quanto dolga

Sento, in giro, gente che si vergogna. Gente che analizza, o per lo meno crede di analizzare. Gente che, scuotendo il capo e dopo aver osservato e sintetizzato dice scintillando di gioia perversa che dai, siamo alla fine, siamo in crisi, del resto non è forse evidente?, siamo all’irreversibile precipizio. Gente scolarizzata. Spesso gente che scrive o scribacchia, che pensa o pensacchia, che bloggava e ora non più, del tutto nauseata dai tempi, dall’imperante coglioneria e dal “pervasivo conformismo, piuttosto che” (perché a volte, ammettiamolo, si tratta di gente che usa un italiano un po’ da trafiletto). Gente che, però, ha studiato, e in ottime scuole statali, perfino amici eh, mica estranei o passanti, no no, gente a cui voglio bene, amici che cenano a casa mia e poi, tra il dessert e il caffè, quando il sopore digestivo comincia a stendere il suo velo impietoso, salta su e appronta l’omelia nichilista. E l’omelia va a finire sempre lì, a tuffarsi nella pozzangherina del solito, abusato e infeltrito risentimento verso l’occidente, cioè lo sgretolamento dell’occidente, ossia la fine dell’occidente. Poi, per carità, di solito è gente che era già risentita prima, si è messa a fare yoga e gira scalza in corridoio come apicale esperienza mistica, ma nessun problema, ognuno faccia quel che crede. Gente che a quarant’anni – tocca dirlo – si diletta con la paraletteratura sul respiro, sulla filosofia del respiro, e che, malgré soi, si insedia linguisticamente/esteticamente tra Raffaele Morelli e Osho. E’ a quel punto, proprio a quel punto che ti sanguina il cuore, perché ti visita la dolorosa certezza di averli persi: è un attimo cadere, e già intravedi la padella dell’antivaccinismo, la brace del terrapiattismo, lo sfaldamento nel veganesimo decadente letto come militanza. Il problema, come sempre, è nelle cattive letture.

 

Tempo fa, uno di questi miei amici (ex lettore improvvisamente esangue, “io mi informo su Facebook”, astenuto alle scorse Politiche perché “nessuno mi rappresenta”, velatamente antieuropeo ma dipende dal meteo), ai tempi del ballottaggio in Francia aveva reagito a un mio messaggio WhatsApp tuonando: “Scherzi? Davvero dovendo scegliere tra Le Pen e Macron tu voteresti Macron??? Io starei a casa, per me sono uguali!”.

 

Bene, ognuno è responsabile di quel fa, perfino di quel che non voterebbe così come dei segni di interpunzione che usa, però da un paio d’anni io mi sto rileggendo tutto Caproni, il poeta Giorgio Caproni, il maestro elementare Giorgio Caproni, il Giorgio Caproni che da bambino voleva fare il macchinista, poi andò in guerra e non sparò nemmeno un colpo, quello degli splendidi versi (punti cardinali del mio sentimento umano): “Fa freddo nella Storia / Voglio andarmene. Dove / anch’io, col mio fucile scarico / possa gridare: “Viktoria!”.

 

Così ho risposto al suo messaggio con questi versi, e l’ho fatto perché penso che qui dentro ci sia tutto quel che ci riguarda come esseri umani, ci siano la tentazione di andarsene e l’inevitabilità di restare, il dolore e la gioia di esserci, la tragedia della vita ma anche il suo riscatto, la cognizione del freddo ma dello spiraglio possibile, l’educazione sentimentale e tutta l’educazione politica essenziale, compresa la vergogna di dover scegliere e di appartenere inevitabilmente: vergogna che sento ma non sento, giacché come tutti appartengo e non appartengo, condivido e non condivido, e mi dibatto riccamente. Nelle poesie di Caproni – vero manuale dell’esistenza e della sacra contraddizione interiore – non ci sono giochi formali o squisite quisquilie, ma un uomo che fronteggia la vita e osa cantarla per ciò che è, tra buio e bagliori, trilli mozartiani e presentimenti di abisso. La vita come religiosità laica, conciliata nella forma di un ritmo cantabile e inceppato, gremito di intuizioni filosofiche, aforismi e sguardi sul dolore tra il concreto e l’astratto, il colto e il vago, il quotidiano e il metafisico. “Amore, com’è ferito / il secolo”. Penso che una poesia di Giorgio Caproni al giorno farebbe bene a chiunque, perché ci ricorda che non possiamo non esserci, per quanto dolga. Che non possiamo non implicarci, per quanto “l’Ombra è in cuore”. Perché “ogni verità / è nel suo contrario” e non possiamo rinunciare a nulla, nemmeno al non senso che crediamo senso: questo è il gioco e vale la pena di giocare. Del resto “vivremo, finché saremo vivi / Siamo uccelli stativi”. (Per chi volesse farsi del bene fino in fondo, Passigli editore ha appena pubblicato “Taccuino dello svagato”, splendida testimonianza della sua attività in prosa).

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